Valladolid, 1936
Contrariamente a quello che accadde nelle maggiori città spagnole, a Valladolid nella notte tra il 18 e il 19 luglio del 1936, la Guardia de Asalto, corpo scelto di polizia, si schierò a fianco dei militari dell’Alzamiento, permettendo così agli insorti di impadronirsi velocemente della città.
Nemmeno Siviglia, che nei sommari di storia viene citata come la prima città controllata dai franchisti, ma della quale in realtà i nazionalisti ebbero il completo controllo solo dal 25 luglio, fu presa così in fretta. Nonostante l’eroica, ma brevissima resistenza del generale Molero e dei pochi uomini rimasti fedeli alla repubblica, Valladolid si guadagnò il triste primato di prima città peninsulare in cui trionfò la sollevazione nazionalista. Anche se praticamente non c’era stata resistenza popolare, i fascisti trattarono molto duramente la città. Solo in quella stessa notte furono fucilate almeno quaranta persone. Nei mesi successivi vennero assassinate più di 2.500 persone.
Per questo, e per la sua posizione lontana dal fronte, fu scelta da Francisco Franco in persona come sede del Gobierno General da contrapporre al governo repubblicano. E proprio in quel periodo la Legion Condor nazista vi elesse il suo quartier generale.
Era estate ma l’aria a Valladolid era fredda come nel più grigio degli inverni. Il sospetto ideologico e la delazione abitavano le sue vie, piene di vedove e di orfani. In questo clima, proprio tra queste strade, Mercedes Sanz-Bachiller, vedova del falangista Onésimo Redondo morto alla fine di luglio negli scontri contro i repubblicani sulla Sierra de Guadarrama, decise di fondare, nell’ottobre del ’36 un’organizzazione di soccorso umanitario chiamata Auxilio Social.
Fondata probabilmente con le migliori e più caritatevoli intenzioni (in fondo, la carità è uno strumento del potere), questa organizzazione era viziata dalla visione pesantemente cattolica, reazionaria e moralista della sua ideatrice. Presto diventò un’organizzazione potente e ricchissima, con migliaia di istituti sparsi in tutta la Spagna, fino a trasformarsi, nel 1940 in un’istituzione del regime. Da allora svolse, con le proprie realtà quali scuole, mense e orfanotrofi, la più capillare attività di controllo morale, educativo e sociale dell’infanzia proletaria che la dittatura franchista abbia avuto. Fino all’esaurimento del regime stesso nel 1975.
Isole Hawaii, 1779 – 1865
Come ci racconta Jared Diamond, chiudendo il bellissimo XI capitolo del suo Armi, acciaio, malattie. quando il Capitano Cook approdò per la prima volta alle Hawai, nel 1779, la popolazione autoctona ammontava a circa mezzo milione di individui. La ciurma di Cook portò in dono agli hawaiani sifilide, gonorrea, tubercolosi e tifo. Malattie che, diffondendosi in modo pandemico tra gli indigeni, ne ridussero il numero, in meno di 70 anni, a poco più di 80.000 unità. Nella seconda metà dell’800 arrivò pure il vaiolo. Ma non fu lui a completare lo sterminio.
Mentre gli indigeni morivano decimati dalle malattie portate dagli europei, gli inglesi, approfittando della “modernizzazione” voluta da re Kamehameha V, riuscivano a introdurre nel Regno delle Hawaii, il concetto di proprietà privata e ad accaparrarsi le terre per la coltivazione della canna da zucchero, indispensabile per la produzione del rum.
La prosperità portata da questa coltivazione intensiva attirò un gran numero di immigrati dalla Cina e dalle Filippine. E con i nuovi venuti asiatici, arrivò anche la lebbra. Fu questa malattia a completare lo sterminio degli indigeni, riducendone, entro la fine del diciannovesimo secolo, il numero a poco più di 30.000 individui.
Nel 1865, per contenere l’epidemia di lebbra, le autorità americane trasformarono l’isola di Molokai, oggi rinomata meta turistica ma all’epoca difficilmente accessibile, in un enorme campo di concentramento in cui deportare in quarantena, ma sostanzialmente per abbandonarlo lì a morire, chiunque avesse contratto la malattia. Non furono poche le ribellioni e le resistenze armate contro questo trasferimento forzato. Ce n’è una in particolare, avvenuta nel 1893, che abita il nostro immaginario grazie alle parole con cui la raccontò Jack London.
Madrid, 1959
Il disegno e i fumetti sono le passioni che divorano Carlos Giménez fin dall’infanzia. Perché in fondo sono i fumetti, letti quasi di nascosto perché le suore non ammettevano certe letture tra gli ospiti dei loro istituti, che gli hanno dato la possibilità di evadere, almeno con la fantasia, dalle grigie giornate trascorse nell’orfanotrofio.
È nato, ultimo di tre fratelli, nel marzo del 1941, quando la guerra civile è finita da poco, Suo padre, saldatore specializzato, è morto quando lui ha appena compiuto un anno. Sua madre, Marcelina, si ammazza di fatica, per mantenere i suoi tre figli, gestendo prima una trattoria e poi un bar; ma la fatica è veramente troppa e, quando la tubercolosi da cui è affetta non le lascia più un briciolo di energia, il governo le porta via i figli, internandoli negli istituti dell’Auxilio Social. Sono anni pesantissimi, grigi, pieni di soprusi e umiliazioni, perpetrati dalle suore che gestiscono l’istituto nel nome di un dio della cui parola sono le uniche interpreti. Carlos attraversa questi anni rifugiandosi nei fumetti, in particolare tra le avventure di El Cachorro, serie a fumetti pubblicata negli anni ’50 dall’Editorial Bruguera di Barcellona, in qualche modo simile alla nostra Bonelli.
Quando, a 18 anni, nel 1959, esce dall’orfanotrofio, dato il suo talento come disegnatore, trova velocemente lavoro presso l’agenzia Ibergraf come aiutante di Manuel López Blanco. A metà degli anni Sessanta, si licenzia e parte per Barcellona, la vera capitale del fumetto spagnolo, insieme agli amici Luis García e Adolfo Usero con i quali forma il gruppo Premia. Ed è qui che, mentre il regime franchista è avviato alla sua lenta consunzione, diventerà uno dei maggiori esponenti del periodo più fertile e rivoluzionario del fumetto spagnolo. Nella seconda metà degli anni settanta sulla rivista “El Papus ”, darà vita a una bellissima e impietosa serie di brevi racconti, basati sui ricordi dell’infanzia trascorsa all’Auxilio Social, intitolata Paracuellos, che lo renderà presto famoso in Spagna e, in seguito alla pubblicazione voluta da Gotlib su “Fluide Glacial”, anche in Francia.
Honolulu, 1907
Quando sbarca alle Hawaii con il suo yacht chiamato Snark, Jack London ha solo trent’anni, ma è un uomo sofferente e stanco. Il suo alcolismo è ormai fuori controllo, beve in modo smodato per reggere il ritmo delle 1.000 parole al giorno che deve scrivere. Qui, mentre cerca di ingannare se stesso sul proprio destino e sul proprio stato di salute, facendo una cosa nuova che ha scoperto alle Hawaii, il surf, sente raccontare la storia di un uomo, di un lebbroso, che si era ribellato al suo destino di malato e non aveva accettato, con un piccolo gruppo di seguaci, di essere trasferito sull’isola di Molokai. Aveva lottato armi in pugno, tenendo in scacco l’esercito statunitense per sei settimane, preferendo morire libero in combattimento che accettare e rassegnarsi a una insensata sopravvivenza in una specie di prigione sanatorio, dove la sua identità sarebbe stata annullata dall’obbligo, in un tempo minore di quello che la lebbra avrebbe impiegato a divorare le sue carni.
Nel 1909 London narrerà, in uno dei suoi racconti più ispirati, la lotta di Koolau il lebbroso ai lettori del “Pacific Monthly”.
Barcellona, 1979
Esauritosi il regime franchista, se non dal punto di vista sociologico, di certo da quello politico, con la morte del Caudillo (il 20 novembre 1975), per il fumetto spagnolo, che già stava fermentando negli spazi di libertà che lascia sempre un regime morente, fu un momento di grande creatività ed euforia, che vide, dalla metà del decennio, la nascita di riviste incredibili come “Rambla”, “El Vibora” o “Totem”. Proprio su “Totem”, sul numero 23, datato luglio 1979, settanta anni esatti dopo la pubblicazione del racconto di London, Carlos Giménez realizza una potentissima trasposizione a fumetti di Koolau il lebbroso (in italiano potremo leggerla nel 1983, pubblicata nella Collana Nera dalle Edizioni Nuova Frontiera).
Una trasposizione in cui i destini dei tre protagonisti di questa bagatella, Koolau, Jack London e Carlos Giménez, sembrano incrociarsi con il nostro, oggi, in questo 2020, fondendosi in un disperato grido di liberazione. Quasi a ricordarci che davanti alle pandemie, ideologiche o mediche che siano, e che da sempre ci minacciano, ci può essere un destino peggiore della morte. Rinchiuderci tra i muri della nostra paura.
Non fa un cazzo da anni, ma è invecchiato lo stesso. Vive a Milano, e non potrebbe farlo in nessun’altra città italiana. Legge e parla di fumetti dal 1972 (anno in cui ancora non sapeva leggere). Ha una cattiva reputazione, ma non per merito suo. Ama e praticava la boxe, poi si è rotto. Beve tanto in compagnia di gente poco raccomandabile, tipo Paolo con il quale – per colpa di una di quelle bevute – si è ritrovato a curare QUASI.