Ieri sera parlavo di etichette con una mia collegamica illustratrice e fumettista.
Quando, più di dieci anni fa, ho iniziato a fare fumetti, mi è stata subito appiccicata l’etichetta di “fumettista femminista”. È vero: nelle mie storie brevi e brevissime affrontavo spesso tematiche femministe. In più, in quegli anni, le ragazze che facevano fumetti si contavano sulle dita di neanche due mani, forse una mano e mezza. Quindi, che volessi o meno, ero una “fumettista femminista”.
Il mio problema non era tanto l’esserlo (lo ero allora, lo sono oggi), quanto il fatto che mi sentivo ghettizzata in un femminismo d’autore semi-imposto, senza molte vie d’uscita. Avevo come l’impressione che se fossi rimasta lì nessuno mi avrebbe mai chiamata per collaborazioni di altro tipo, con altre tematiche, o per commissioni retribuite meglio di quelle di “movimento”. O che, se avessi deragliato un po’ dalla linea stabilita (stabilita da me? dagli altri?) avrei deluso le aspettative del lettore e subìto di conseguenza enormi critiche.
Alla giovane me questo faceva molta paura.
Il discorso delle etichette può essere certamente esteso e generalizzato. Non riguarda solo i fumetti delle femmine.
Se sei un artista il tuo nome è inevitabilmente legato alla tua produzione artistica più evidente, più visibile o di maggior successo.
Se continui a ricercare anche altro, il ritorno negativo da parte del committente, del critico o del lettore arriva inesorabile.
Questo concetto, per le ragazze che facevano fumetti a fine decennio degli anni 2000, si estremizzava. L’ondata italiana di fumetti di giovani femmine (e quindi femministi) aveva inizio, e alla testa del corteo eravamo meno di una manciata. Avevo solo due scelte: restare davanti o mollare la presa.
Io scelsi coscientemente, ma anche con dispiacere, la seconda.
Smisi di legare il mio nome a collaborazioni di e per donne per non rimanere soffocata, schiacciata da un fenomeno che io stessa avevo ampiamente contribuito a creare. Smisi nonostante il femminismo sia una parte consistente della mia persona, da molto prima dei fumetti. Non era il momento giusto, non volevo sistemarmi in quell’unico vagone e non avevo ancora ben chiaro il perché.
L’etichetta “fumettista femminista” è stata forse la molla che mi ha fatto abbandonare i fumetti a tempo indeterminato. Ma non è stata l’unica ragione. C’erano almeno altri due problemi.
Il primo aveva a che fare con le paure che attanagliano la gioventù: il successo virtuale improvviso e inaspettato, il timore di fallire, una storia d’amore drammatica in corso, le invidie, il bullismo altrui e, diciamocelo, la povertà.
Il secondo, anche se l’ho messo in fondo a questo elenco, è forse il più importante: il formato dei miei fumetti.
Io disegnavo strisce umoristiche, ma erano già gli anni del formato romanzo e per la pubblicazione delle strisce c’era – e c’è – pochissimo spazio.
C’erano editori, che non smetterò mai di ringraziare in pubblico e in privato, che volevano che io pubblicassi un libro. Ma strutturare le mie storie brevi in forma di racconto lungo non solo era difficile: era innanzitutto una forzatura.
Anche adesso, quando rileggo i miei fumetti di allora, provo ancora una volta a immaginarmi un ipotetico racconto lungo. Non funziona. Non diverte. È un libro scollegato, fragile, di poco impatto, noioso.
A me piace la battuta. Subito, a fine pagina, in una sola pagina. L’immediatezza delle strisce, la risata a sorpresa.
È lì che penso di essere capace di dare il meglio di me al lettore: quando, mentre disegno, rido come una scema e ho voglia di raccontarne il perché senza aspettare la seconda pagina.
Non escludo nulla nella vita. Non disegno fumetti da anni, ma non dico che non pubblicherò mai un libro. Ma, se e quando succederà, sarà necessariamente l’evoluzione naturale di un lavoro fatto prima su un altro tipo di formato, molto, molto più corto.
Quando iniziai a fare fumetti non conoscevo i fumetti.
Sono stati gli altri a dirmi, negli anni, che forse ricordavo un po’ Maitena, un po’ la Bretécher, qualcosa di Sempé forse, a volte Mafalda, un po’ di Satrapi, ma neanche troppo.
Ecco. Finalmente penso di aver capito qual è il mio vagone. Quale etichetta posso accettare senza paura.
Non sono una fumettista femminista, portavoce di un movimento.
Non sono un’autrice di romanzi a fumetti.
Mi sa che sono un’umorista. Una di quelle che fanno femminismo senza fare femminismo. Una di quelle che fanno libri lunghi una sola pagina, che raccontano gli eventi e i fenomeni senza metterli troppo in mostra e senza averli necessariamente capiti fino in fondo.
È un’altra strada, né migliore né peggiore delle altre.
A distanza di anni ho finalmente capito che è quella, la strada da percorrere. Che per me è sempre stata la più bella, la più libera, la più difficile.
Non disegno fumetti da anni, siamo nel 2020 e ormai le strisce non le pubblica quasi più nessuno. Chissà che ne sarà, di questa mia voglia di ritornare.
Una risposta su “Female Ghetto, ovvero smetto quando voglio”
cristina
Io non dimentico i fumettisottovuoto <3 Evviva FdP!