La versione di Boris Battaglia
Sai, ogni tanto mi capita di chiedermi perché i fumetti mi piacciono e mi sono sempre piaciuti così tanto.
Forse perché come ad Alice anche a me capita di annoiarmi davanti ai libri senza figure.
Forse perché mi è capitato di leggerli quando ancora non sapevo leggere. Anzi, meglio: mi è capitato di guardarli, perché i fumetti mica si leggono. Si guardano.
Me lo ricordo ancora. Era il luglio del1972, avevo quattro anni, e mi capitò in mano il numero 58 dell’Uomo Ragno (Medusa! si intitolava). C’erano un sacco di parole che gli uscivano dalla bocca, ma non avevo nessun bisogno di saperle leggere per capire cosa stava succedendo in quella storia.
Quando Alice (nel settimo capitolo del capolavoro di Carroll) arriva a casa della Lepre Marzolina, la trova seduta a prendere il Tè con il Cappellaio Matto e il Ghiro a un lungo tavolo apparecchiato con un sacco di posti. Il Tempo, dopo un litigio con il Cappellaio, ha deciso di fargli un dispetto e si è fermato. Alle sei. Per sempre l’ora del Tè. I tre non hanno quindi neppure il tempo di sparecchiare e lavare le tazze: sono obbligati ogni volta a scalare di posto, passando a uno con la tazza pulita. Se dovessi trovare una metafora per descrivere come funziona il fumetto seriale, non saprei trovarne una più adatta. Il tempo è fermo, i protagonisti non ne sono scalfiti, la storia come il Tè del Cappellaio è inconsumabile. Ci si sposta da un albo a quello del mese successivo ma non cambia assolutamente nulla. Per un po’ la cosa ti diverte, solo che poi l’Alice che c’è in te, stufatasi chiede: sì, vabbene, ma poi, quando a furia di scalare di posto. si torna al punto di partenza cosa succede?
Se non hai la fortuna di incontrare, in quell’età di mezzo che ancora ti permette lo stupore, tra le letture a fumetti un Cappellaio Matto che ti dia una risposta, i fumetti rimangono ai tuoi occhi roba che, se non sei scemo, prima o poi ti stanca.
Io sono stato fortunato, ché i fumetti li leggo ancora perché un tipo di nome Panebarco, incontrato per caso tra le pagine di una rivista chiamata “Il Mago” (era il 1977) mi ha dato quella risposta.
La vera storia del fumetto comincia qui.
Piccolo inciso. La storia non è, e un poco dispiace peri professori che lo credono, una processione di fatti date luoghi nomi messi tutti in fila l’uno all’altro senza altra relazione causale che non sia la sequenzialità del tempo, da un prima a un dopo. Insomma. La storia non è uno spiedino. La storia è un minestrone. In cui ogni elemento concorre a formare il tutto, senza soluzione di continuità; un minestrone che ha tutti i sapori e tutti i colori del qui e dell’adesso, esaltati da un catalizzatore come la memoria. I ricordi sono i fondamenti biologici della nostra esistenza, è di questi che siamo fatti, oltre che di fibre e DNA. La storia del fumetto comincia quando ho cominciato a leggerlo con cognizione: tra le non molte tavole di Tiralo ancora Ignatz (qualcuno ripubblichi il volume La semplice arte del derelitto, per favore). Avevo nove anni allora, giocavo (male) a pallone e leggevo (forse) “Topolino” e “Tex”. Però quella storia fu fondamentale. Per un perché semplicissimo.
Hanno ucciso il vecchio Corto Maltese.
H.P. sacerdote puzzolente di santità, assume Big Sleeping per scoprire chi è stato. La moglie del Maltese, cicciona alcolizzata e rossa naturale (ragazzina una volta) mette il detective sulle tracce di Carlo Marrone suo ex-amante che fa il pizzaiolo a cinque isolati da lì. Il Marrone viene ucciso dai terribili Mordilleros proprio sotto gli occhi del nostro investigatore. Il quale, dopo le rituali schermaglie con l’ottusa polizia, si reca al Golden Ballon, cabaret gestito da un certo Snolinsky, dove l’imbolsita Mafalda tiene recital comici che non fanno ridere. Lotar serve al banco e il cinico topo Ignatz suona al piano laconici valtzer. Snolinsky mette il nostro occhio privato sulla pista di un certo Oreste Settebellezze. Mentre sta andando a parlargli, Big Sleeping viene aggredito da Popeye e, per evitare il peggio, lo stecchisce con una pistolettata. Nel frattempo anche Settebellezze viene ammazzato dai Mordileros sotto gli occhi annoiati dello Sleeping. Prima di morire, come in ogni pallido giallo che si rispetti, il morente confida all’orecchio del detective di una lettera celata al Golden Ballon. Quivi introdottosi di notte, Big Sleeping legge la lettera, furbescamente tenuta nascosta nel cassetto della scrivania di Snolinsky. Con essa il Corto Maltese ricattava lo Snolinsky minacciando di rivelare a tutti che in realtà egli altri non era che il pulcioso bracchetto di nome Snoopy operatosi a Casablanca e diventato in conseguenza irresistibile playboy. Vistosi scoperto l’ex-bracchetto sta per uccidere il nostro eroe, ma viene fermato dal deusexmachinoso intervento del topo Ignatz, che, con santa e doverosa mattonata sulla cervice, per sempre ce lo leva dai coglioni.
«Odiavo quel bracchetto. Mi aveva portato via la gatta che amavo». E’ il commento del topo, che chiude la storia, mentre in compagnia di Big Sleeping si allontana lungo la strada invasa dalla notte.
Queste poche tavole sono la cronaca di una tautologia; non sono Godard e a maneggiarle (le tautologie) rischio solo di ferirmi. Ma è così. Quindi corro il rischio; e quello che voglio dire, e che dice Panebarco è questo: che il fumetto è il fumetto. Cioè che il fumetto è l’unica risposta possibile alla domanda di Alice: quello che succede quando arrivi al punto di partenza.
La versione di Paolo Interdonato
Quella mattina John Tenniel porta a spasso i suoi baffoni per le strade di Oxford indossando la migliore espressione di noncuranza. L’ultima cosa che il maggior vignettista politico di “Punch”, il settimanale satirico londinese, vuole in quel momento è che qualcuno lo noti. Si muove lentamente, con fare un po’ ozioso, lanciando occhiate in tralice a un ometto che, a sua volta, pare non aver nulla da fare. Memorizzare quel tizio non gli sarà difficile. Sembra nato per facilitare la vita ai caricaturisti: nasone, mento sfuggente, grembiule e un cappello a cilindro, calcato in testa, spinto ridicolmente indietro.
L’ometto si chiama Theophilus Carter ed è un mobiliere che, in passato, ha lavorato al Christ Church College di Oxford. Lì ha incontrato un insegnante, il reverendo Charles Dodgson, riuscendo nell’impresa, certo non difficile, di conquistarne l’antipatia. Qualcuno dice che Carter abbia venduto all’insegnante un mobile di pessima qualità.
Mentre osserva il mobiliere, Tenniel pensa a Charles Dodgson. Quanto gli costa dare ragione a quel mediocre insegnante di matematica, balbuziente e rigido come uno che avesse ingoiato un bastone: Carter è un Cappellaio Matto perfetto.
Mai si abbasserà ad appuntarsi i tratti di quel volto. In fondo lo ha già detto a quello sciagurato di Dodgson: lui disegna affidandosi unicamente alla propria memoria infallibile; ha bisogno di modelli e fotografie come un matematico di una tavola pitagorica.
Quanto è fastidioso quel mediocre insegnante! Lo manderebbe volentieri al diavolo, ma il romanzo che gli ha proposto di illustrare è bellissimo fin dal titolo, Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie. E anche il nome che l’insegnante ha scelto per firmarlo non è affatto male: Lewis Carroll.
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Alice, presentandosi ai suoi lettori, pone subito la domanda essenziale, senza perdersi in orpelli o infiorettature: «A che serve un libro senza figure né dialoghi?». A poco, è evidente. Chi vi indugia si annoia a tal punto da cercare rifugio nel sogno e nella tana del coniglio che, come tutti sanno, è una porta che conduce al Paese delle Meraviglie.
Della scarsa utilità di un libro di sole parole è convinto anche Lewis Carroll che, fin dalla prima stesura, infittisce il suo libro di dialoghi e di disegni. Alice’s Adventures Under Ground è il titolo della prima versione, destinata a essere regalata alla piccola Alice Liddel che ha ispirato quella storia. Per completare il suo racconto, per renderlo coerente e finito, Dodgson decide di alternare, alle sequenze scritte, pagine disegnate con perizia. Il reverendo non è un gran tecnico dell’illustrazione, ma ha a appreso i segreti della costruzione delle figure da due passioni: da un lato quella per la macchina fotografica, di cui è uno dei primissimi possessori; dall’altro, dalle amate illustrazioni che vede, tutte le settimane, sulle pagine di “Punch”.
Quando decide di dare una diffusione maggiore al proprio romanzo, si dedica a una riscrittura radicale che lo porta a estendere l’opera originaria e a rivederne completamente la struttura. Siccome le illustrazioni sono necessarie perché Alice sia completa, Carroll si rivolge proprio a Tenniel di “Punch”, commissionandogli i 42 disegni che richiederanno al disegnatore un anno di lavoro.
Tenniel coglie immediatamente le regole del gioco di Carroll e vi si immerge senza timore, rifiutando il ruolo di mero esecutore. Ricostruisce alcune delle immagini già progettate dallo scrittore, gratificandole di un segno nuovo e di una tecnica finissima, ma mantenendone l’impianto. Per il resto si confronta con la scrittura senza alcun timore. Scontri continui caratterizzano il rapporto tra i due: come la volta in cui Carroll si lamenta per le proporzioni errate della bambina e invita il disegnatore a usare delle foto, da lui stesso scattate, come modello; oppure, come quando, durante la realizzazione del seguito del romanzo, Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò, il disegnatore chiede modifiche al testo scritto, per migliorare quell’insieme unico e perfetto di parole e di immagini che ci ostiniamo a definire romanzo.
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È straordinario osservare quanto Carroll e Tenniel siano consapevoli del delicato equilibrio della loro collaborazione. Nelle lettere che i due si scambiano, sotto uno strato di squisita educazione, emerge una sfida continua.
Ed è proprio in questo laboratorio d’eccezione, in cui parole e immagini si scontrano per trovare il punto di equilibrio narrativo, che compare la più straordinaria definizione di fumetto che possa capitare sotto gli occhi di un lettore.
In Attraverso lo specchio, Alice si ritrova nel negozio della Pecora e inizia a guardare tutti gli scaffali presenti nel locale.
«Il negozio sembrava pieno di oggetti curiosi di ogni sorta, ma la faccenda più strana era che, ogni volta che Alice fissava uno scaffale per capire cosa ci fosse esattamente sopra, quello stesso scaffale era sempre completamente vuoto, sebbene gli altri tutto intorno fossero tanto pieni zeppi da traboccare. “Ma qui le cose scorrono!” disse infine in tono lamentoso, dopo aver passato un minuto o due nel vano inseguimento di un oggetto grande e lucente, che alle volte sembrava una bambola e alle volte una cassetta degli attrezzi, e che era sempre nello scaffale sopra quello che guardava.»
Perché ogni singolo elemento non significa niente. La storia corre tutta intorno e, per afferrarla, bisogna rincorrerla con lo sguardo.