Più o meno negli stessi mesi di quel 1978 in cui Arthur Même saltellava, a puntate su “(À suivre)”, avanti e indietro sopra i muri della sua ex-proprietà (impartendoci una gran bella lezione sui meccanismi e sui rapporti di potere del fumetto), Michel Foucault teneva, al Collège de France un corso fondamentale, nel quale riprendeva e approfondiva un concetto che aveva usato per la prima volta due anni prima in chiusura della Volontà di sapere: la biopolitica.
Queste erano le parole con cui, nel 1976, Foucault introduceva il concetto:
«Al di qua, dunque, di quel grande potere assoluto, drammatico, fosco, che era il potere della sovranità, e che consisteva nel poter far morire, ecco ora apparire, con la tecnologia del bio-potere, con questa tecnologia del potere su “la” popolazione in quanto tale, e sull’uomo in quanto essere vivente, un potere continuo, scientifico: il potere di “far vivere”. La sovranità faceva morire e lasciava vivere. Ora appare invece un potere che definirei un potere di regolazione, il quale consiste, al contrario, proprio nel far vivere e nel lasciar morire».
Nel corso non fece altro che articolare magistralmente questo concetto, affrontando tutte le forme della governamentalità della vita contemporanea. Perché il concetto passasse dalle affollate aule delle sue lezioni (ci andava talmente tanta gente che vennero installati monitor fuori dall’aula in cui Foucault parlava per permettere al maggior numero possibile di persone di assistervi) al dibattito filosofico e politico internazionale, ci volle un attimo. Naturalmente non mancò, tra le tante declinazioni del pensiero foucaultiano, quella femminista. Nell’ottica femminista, se l’antica sovranità era un potere di morte, regressivo e repressivo, incentrato sul valore maschile della forza fatta legge, di contro il biopotere, in quanto potere produttivo e positivo, e per questo più insidioso, è una forza che promuove, garantisce e medicalizza la vita, mettendo al centro, invece della legge, la normalità. In altre parole: la sovranità coincide con un potere di tipo patriarcale, mentre il biopotere assume una forma più contigua a una dimensione distorta del materno, inteso come cura e controllo del vivente. Ciò che il biopotere cerca di fare, e questo lo possiamo vedere molto bene oggi nella gestione dell’emergenza sanitaria, è di spegnere ogni tensione dei corpi, rendendoli compiuti in una forzata unità con la psiche.
Ma i corpi in realtà contengono possibilità insopprimibili e irriducibili, «noi non sappiamo ciò che un corpo può», scriveva Spinoza. Con la loro eccezionalità i corpi sono uno spazio aperto, e quando il potere esercita il tentativo di gestirli nei suoi meccanismi, possono sempre sottrarvisi. Si scatenerebbe così una guerra tra l’assembramento dei corpi voluto dal potere, e la singola volontà del corpo di affermare la propria ecceità.
Ora. Non so se Alfredo Castelli, il più colto degli autori del fumetto popolare italiano (e l’unico che riesce a non essere didascalico e enciclopedico, quando usa la sua cultura per raccontarci le sue storie), avesse presente il dibattito sulla biopolitica, quando ha scritto la storia contenuta nei numeri 274 e 275 di “Martin Mystère” (usciti a gennaio e febbraio del 2005), ma in quella storia questi temi sono tutti presenti. Castelli vi mette in scena la tensione del potere a controllare i corpi attraverso l’incontro/scontro tra la normalità e l’eccezione, contrapponendo a Martin Mystére uno splendido personaggio femminile, che si rivelerà essere un’androide atlantideo, Drusilla, e riscrivendo una vecchia, storia scritta da Bill Walsh e disegnata da Dick Moores e Floyd Gottfredson, pubblicata tra novembre 1944 e gennaio 1945: Topolino e la casa misteriosa.
Non è un caso che Castelli abbia deciso di rivisitare proprio The House of Mystery, perché si tratta di una storia veramente particolare, e abbastanza fuori standard nel corpus delle avventure del topo disneyano.
Topolino riceve nottetempo la visita di uno strano notaio, che lo trascina a prendere possesso di una casa inquietante, poco fuori città, lasciatagli in eredità dallo zio Max. Dopo una serie di strani accadimenti, tra cui la morte per strangolamento del notaio (e non ci si può esimere dal notare come già la morte violenta e perfettamente rappresentata, sia un topos rarissimo, se non unico, da trovare nelle storie del topo), Topolino rinviene, prigioniera nella casa, una giovane molto avvenente di nome Drusilla.
Per mettere in crisi i confini del biopotere, Castelli ha facile agio a trasformare Drusilla in un cyborg, Donna Haraway gli ha servito gli argomenti necessari circa 20 anni prima, quando ha pubblicato il suo manifesto. Ma Walsh e Gottfredson quando, sul finire della seconda guerra mondiale, pubblicarono la storia alla quale quella di Castelli si ispira, non potevano aver letto né Foucault né Haraway. Ma avevano alle loro spalle tutti i romanzi di Hammet e Chandler.
Presentata all’inizio come un’indifesa fanciulla, vittima del perfido zio Max e di situazioni più grandi di lei, sul cui corpo la società, per mezzo di Topolino, vuole estendere il proprio controllo normativo, Drusilla si rivela essere in realtà l’opposto di ciò che sembrava. È in realtà l’ingranaggio che mette in crisi l’immaginario della biopolitica. Un’erotizzata dark lady, in grado di porre la propria ecceità al centro della storia, sottraendosi alla norma del corpo sociale. Arriva a sovvertire la realtà, la modifica con trucchi da prestidigitatrice, che sono solo i divertiti trucchi narrativi di Walsh e Gottfredson, e riesce, lei eccezione, a controllare il simbolo della normalità, Topolino, e a obbligarlo a commettere atti asociali.
In questa storia Topolino è veramente la quintessenza della normalità sociale: compie atti di disobbedienza solo sotto ipnosi, sotto il controllo della perfida dark lady. Nonostante Topolino non sia responsabile degli atti contro il corpo sociale, il fatto di averli compiuti lo porta a una crisi identitaria che potrebbe trasformarlo completamente, se questa tensione non fosse spezzata dal disvelamento della verità, raccontata da un redivivo zio Max.
Drusilla in realtà è una scienziata pazza, nata un secolo prima, che è riuscita a sintetizzare un filtro di lunga vita (grazie al quale riesce a mantenersi perennemente giovane e bella – e non chiedermi dove Max Bunker ha preso l’idea per Satanik) e vari gas ipnotici con cui controlla e uccide gli uomini. In questo senso Drusilla non è (come ha sostenuto certa critica senza strumenti, se non le proprie letture a fumetti) il simbolo della sottomissione ai dettami estetici della società che vuole la donna sempre giovane e bella, quanto piuttosto la rappresentazione del corpo che cerca di sottrarsi al controllo del potere sulla vita e sulla morte. Drusilla è assolutamente l’unica padrona del proprio decorso biologico: può controllare l’invecchiamento.
Nella rilettura di Castelli, Martin Mystére, risolve la crisi che lo aveva portato a “credere” di essere un assassino (uccidere è la più grave infrazione in un assetto sociale biopolitico che protegge e controlla la vita fino, in alcuni casi, all’accanimento terapeutico) disattivando e riportando allo status di dormiente il cyborg Drusilla. Walsh e Gottfredson, uomini del loro tempo, non hanno la stessa sensibilità (o lo stesso moralismo progressista) e dopo una furibonda lotta tra il topo e Drusilla, in cui l’aspetto della donna raggiunge punte di erotismo che mai più saranno presenti nelle storie del topo, chiudono la storia facendola perire – in due vignette di livida bellezza – tra le fiamme di un incendio. Quando il biopotere perde il controllo sulla vita, riassume l’antico aspetto sovranista. E dispensa la morte.
Probabilmente contro le intenzioni degli autori, storie come questa, suscitano sempre l’incendio del nostro immaginario, per poi spegnerlo con violenza. Sta a noi trovare sotto le ceneri che ne restano, le braci per ridare vita al falò di quello che Foucault ha definito, nella Storia della Follia, il diritto alla nostra legittima stranezza. Contro ogni potere. Ci costasse affrontare le fiamme dell’inferno.
Non fa un cazzo da anni, ma è invecchiato lo stesso. Vive a Milano, e non potrebbe farlo in nessun’altra città italiana. Legge e parla di fumetti dal 1972 (anno in cui ancora non sapeva leggere). Ha una cattiva reputazione, ma non per merito suo. Ama e praticava la boxe, poi si è rotto. Beve tanto in compagnia di gente poco raccomandabile, tipo Paolo con il quale – per colpa di una di quelle bevute – si è ritrovato a curare QUASI.