Cadrà dolce la pioggia

Boris Battaglia | Una pietra sopra |

Pubblicato originariamente su “Scuola di Fumetto” 108, settembre 2017.

«È stato migliore di Eisner, migliore di Kurtzman, il più grande di tutti quei ragazzi…»

Al Williamson

L’alcolismo è una gran brutta bestia.
Se non ti cede il fegato , ti mangia un pezzo alla volta.
Affetto ormai da quasi dieci anni da un’emicrania cronica e da insufficienza renale, menomato nella vista dal 1978 a causa di un’ischemia oculare, quando la sindrome di Wernicke-Korsakoff comincia a paralizzargli (con dolori intollerabili) i muscoli delle mani impedendogli di disegnare, Wallace Allan Wood prende dal cassetto della scrivania la sua Smith & Wesson modello 29 con canna da 10 cm (meglio, anche se erroneamente, conosciuta come 44 Magnum) e si pianta una palla da 10,9 mm nel cuore. È il 20 novembre del 1981.

Circa trent’anni prima, nella primavera del ’52, anche se Wallace beve fortissimo (d’altra parte tutta quella banda lì, di giovani talenti che lavorano per la EC Comics di William Gaines, beve e fuma senza sosta per reggerne i ritmi di produzione), quei maledetti sintomi sono ancora lontanissimi. Wood ha 25 anni: è nato il 17 giugno 1927, ed è già un gigante. Una stella emergente del fumetto fantascientifico: nell’aprile del ’53 pubblicherà sul numero 17 di “Weird Fantasy” quello che per me è il suo lancinante capolavoro: There Will Come Soft Rains che supera, e di gran lunga, l’omonimo racconto di Bradbury a cui è ispirato. Cadrà dolce la pioggia, titolo che Bradbury aveva preso in prestito da una poesia di Sara Teasdale Trevor, è il penultimo racconto delle Cronache Marziane. Narra di una casa che, dopo una catastrofe apocalittica, continua le sue funzioni robotizzate senza bisogno della presenza umana. Quello che è incredibile è come, nella totale assenza dei corpi umani Wallace Wood riesca a evocarne la precedente presenza. Un paradosso, quello di rappresentare i corpi senza nemmeno disegnarli, fino ad angosciare il lettore per la loro assenza, che dimostra tutta la grandezza di questo disegnatore. Non si può abbandonare l’ultima tavola di questo breve fumetto senza sentirsi commossi.

Insomma, agli inizi degli anni ’50 Wallace Wood è un sicuro talento su cui investire.

Will Eisner infatti già all’inizio del ’52 lo ha voluto nel proprio studio per ridare fiato a un personaggio ormai usurato come il suo Spirit. Lavorando fianco a fianco con un altro gigante come Jules Feiffer, Wood dà vita a una saga originalissima: The Outer Space (in cui Spirit è solo un vago pretesto). Il risultato è pazzesco. La poetica di Eisner ne esce rivoluzionata. Sono tempi nuovi. Infatti nell’estate di quello stesso anno Wallace Wood partecipa alla creazione di “Mad”. Nulla, nel mondo del fumetto e dell’umorismo, sarà più come prima.

Nel numero 4 di Mad, quello del maggio ’53, c’è una splash page di Superduperman in cui un manifesto sul muro recita «se sono i meglio disegni mai disegnati, è Wood che li ha disegnati. È veramente un grande!»

Attestato di autoconsapevolezza. Perché se è vero che Mad fu un’idea di Kurtzman, chi diede a quell’idea la caratterizzazione grafica che ancora abbiamo in mente quando ci riferiamo a essa, è stato proprio Wallace Wood.

Certo; l’umorismo di Wood non aveva quella raffinatezza ebraica dei suoi soci d’avventura Kurtzman ed Elder, le sue battute hanno un sapore adolescenziale e le sue parodie sono tutte costruite su ribaltamenti letterali, ma era nel disegno, nella composizione delle tavole che la sua immaginazione raggiungeva vette eccelse, e nella caratterizzazione dei corpi.

In una azzeccatissima definizione del talento di Wood, Howard Chaykin ha scritto che quando scoprì Jim Thompson e la sua visione alcolizzata dell’America urbanizzata degli anni ’50, quelle storie nella sua testa erano illustrate da Wally Wood. Questa è una cosa vera proprio per quella caratterizzazione dei corpi che rese grande Wood e che lo portò a definire (per esempio) negli anni ’60 in una manciata di numeri l’immagine di un personaggio come Daredevil in modo definitivo. Rilevanza particolare ha la riflessione anatomica che Wallace Wood ha fatto sul corpo femminile, che da sola basta a esemplificare l’evolversi culturale di tre decenni: a partire da V-Vampire fino a Sally Forth. Riflessione che, non a caso influenzerà autori come Jeff Jones e Vaughn Bodè. Non tanto nello stile grafico, quanto in quella consapevolezza che, attraverso l’uso funzionale dei contrasti e delle ombre, dell’impostazione delle inquadrature e degli angoli visuali non concede allo sguardo del lettore nessuna giustificazione: inchiodandolo alle proprie responsabilità. Al di là di tutte le possibili stupide accuse di sessismo e maschilismo 8che purtroppo gli furono mosse), Walalce Wood fu in questo un vero innovatore.

Se devo pensare a qualcuno che in Europa ha fatto un lavoro simile mi viene in mente solo Pichard.
Nella struttura di quei corpi Wood ha raccolto, forse anche inconsapevolmente, ma senza eguali tra gli autori suoi contemporanei, quel miscuglio di elementi biologici e di elementi culturali che formano lo scorrere delle nostre esistenze dentro alla nostra civiltà occidentale. Senza concedere mai, né a sé né a noi, speranza alcuna sulla nostra natura e sul nostro destino, che come scriveva Sara Teasdale sarà quello di scomparire completamente.

O forse invece, proprio nel modo in cui se ne è andato, l’ha fatto.

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(Quasi)