Ernest Hemingway disprezzava i critici. Li considerava degli idioti che scrivevano di cose che non sapevano fare, e non sopportava che tentassero interpretazioni, o addirittura sovrainterpretazioni delle sue opere. Una volta si incazzò pesantemente con Fernanda Pivano, che era sua amica, perché aveva usato il termine “metafisica” per cercare di spiegare la tensione etica dei suoi romanzi. Con lei si era limitato a sbraitare ma, se non eri donna, anche se eri suo amico, correvi il rischio che ti prendesse a cazzotti. Sembra che sapesse tirare molto bene di boxe, visto che frequentava il ring fin dall’età di 10 anni, quando decise di imparare a usare i pugni per difendersi da un bullo che lo perseguitava.
Se vogliamo credere a quello che Morley Callaghan, che era suo amico dal 1923, quando lavoravano insieme al “Toronto Star”, raccontò nel suo libro Quell’estate a Parigi, Hemingway un giorno sfidò a salire sul ring persino lui. Nel libro, che è del 1963 ed è molto bello e divertente, Callaghan racconta dell’estate del 1929, trascorsa a Parigi con tutti i suoi amici della Lost Generation, tra i quali c’erano Hemingway, appunto, e Francis Scott Fitzgerald.
Le cose andarono più o meno così.
Quell’estate Callaghan aveva pubblicato, sulla rivista “Scribner” un articolo critico sulla boxe. Cosa che aveva fatto incazzare Hemingway. Nella visione dell’autore di Addio alle armi, potevi scrivere e raccontare qualcosa solo se la conoscevi bene, se la sapevi fare o se l’avevi vissuta veramente. Altrimenti non eri che uno di quegli idioti che parlano a vanvera: un critico. Così, convinto che, come fanno sempre i critici, Morley avesse scritto di boxe senza saperla praticare, lo sfidò a dimostrare il contrario in un incontro.
Hemingway, un metro e ottantatré di altezza per più di novanta kili era decisamente un peso massimo, Callaghan che non raggiungeva il metro e ottanta e pesava decisamente meno di ottanta kili, si collocava tra i pesi medi. Non sarebbe stato, almeno sulla carta, un incontro bilanciato. Ma Morley accettò.
Si incontrarono all’ American Club, che era abbastanza grande per organizzarci un ring provvisorio. L’incontro fu arbitrato da Fitzgerald. Il primo round si svolse tranquillo, qualche schermaglia, pochi colpi portati con convinzione, insomma si stavano studiando. Hemingway sovrastava, con tutto il peso della sua categoria, Callaghan che sembrava fare fatica nel respingere gli affondi dell’amico. Questo probabilmente infuse in Ernest una certa sicurezza e, nel secondo round, lo portò ad attaccare con convinzione, con spavalderia, senza preoccuparsi troppo di mantenere ben alta la guardia. Callaghan colse l’occasione e con un diretto penetrò senza fatica la difesa del “Papa”, colpendolo dritto sul naso. Hemingway cominciò a sanguinare di brutto e questo lo fece inferocire. Nel terzo round commise lo stesso errore; un altro diretto di Callaghan lo mandò al tappeto.
Non sapremo mai se, come sostenne in seguito Hemingway, Fitzgerald fosse così sbronzo da sbagliare a contare, anche se la cosa è plausibile, dato che Fitzgerald era sempre ubriaco fradicio. Hemingway perse l’incontro contro uno che lui sosteneva avesse scritto di boxe senza saperla praticare.
La vittoria di Callaghan a noi sembra QUASI una metafora del lavoro svolto fino a qui.
Una risposta su “Interpretazioni, metafore e cazzotti”
R Good
Boh, su Wikipedia la versione è ben diversa: “While in Paris, the pair had been regular sparring partners at the American Club of Paris. Being a better boxer, Callaghan knocked Hemingway to the mat”.
Comunque, lo sappiamo, sempre meglio ladri.
Saluti e grazie.