La lingua anfibia delle storie – 1

Quasi | Memorie e cuccioli |

di Otto Gabos

Stamattina, nel dormiveglia, mi stavo liberando da un sogno fastidioso. Ero stato costretto, sotto ricatto, a far parte di una banda criminale che doveva fare fuori un magnate. I cattivi minacciavano di sequestrare e far fuori moglie e figli e, non essendo io un criminale come loro, avevo dovuto accettare. Avevamo fatto le prove generali in uno spiazzo in campagna, di notte, in un inverno freddo. C’era pure un po’ di nebbia. Indossavamo tutti un cappotto nero. Tornando a casa, la stessa dove sono cresciuto a Cagliari, mi trascinavo a testa bassa reggendo sulla spalla sinistra un borsone da palestra. Pensavo che forse sarei stato ancora in tempo per mandare tutto e tutti a quel paese, non presentarmi e provare a denunciare il fatto alla polizia. Mentre riflettevo sullo stato delle cose continuavo a fissare le mattonelle di graniglia che, oltre a essere indistruttibili, occultano gli oggetti che cadono sul pavimento. Era una visione psichedelica che mi portava in una condizione di straniamento involontario. Mi sono svegliato con il senso di angoscia di quando sei ancora a metà tra i due mondi. Ho cercato di liberarmi dai cascami del sogno, focalizzandomi su cosa avrei dovuto fare oggi. Niente esami, niente lezioni, i disegni sono lì che aspettano e anche le sceneggiature. Oggi devo scrivere un pezzo per QUASI.

Ormai alle 7:30 ero tornato definitivamente da questa parte e stavo pensando a come iniziare a scrivere.
Il tema da affrontare potrebbero essere vischioso dato che è una ricerca in territori di confine poco battuti. Provare a fissare alcuni punti cardine di una modalità narrativa ancora senza nome che mi appassiona e che uso sempre più spesso, perché mi consente di muovermi in corsa, cambiando registro, tono, canone e codice. Da qualche anno cerco di raccontare le mie storie spaziando dal fumetto all’illustrazione, fino al testo in cui le parole evocano le immagini. Ho una scrittura decisamente visiva perché, senza girarci intorno, è da lì che provengo; è attraverso le immagini che riesco a dare forma ai concetti.

Dopo varie discussioni, riflessioni condivise con amici e colleghi, ho deciso di provare a fissare alcuni concetti che, alla fine, sono soprattutto pratica del lavoro.

Fino a ieri ero sicuro che sarei partito da Gemma Bovery di Posy Simmonds, invece stamattina è arrivata all’improvviso e senza essere annunciata la folgorazione. Quasi di prepotenza mi sono apparse le tavole del Dottor Oss pubblicate per la prima volta sul “Corriere dei Piccoli” nel 1964. Mi sono rivisto da bambino mentre sfogliavo le pagine enormi del giornalino. Non sapevo ancora leggere ma ero ipnotizzato dalla bellezza dei disegni di Grazia Nidasio che evocavano un mondo antico ma sembravano proiettate in un futuro sconosciuto. Ai tempi non era ancora stato inventato lo steampunk e forse nemmeno il termine retrofuturista. Esistevano solo le storie alla Giulio Verne (nessuno lo chiamava mai Jules).

In calce alle illustrazioni curatissime, sei per pagina, c’erano i testi di Mino Milani che si era firmato con lo pseudonimo Piero Selva, usato spesso per non monopolizzare il sommario della rivista. Non sapevo ancora leggere e potevo solo immaginare cosa raccontassero quei disegni e, in quel momento, ho deciso di fare il mio esordio come sceneggiatore e mi sono messo a reinventare le storie di cui divoravo le immagini.

Poi, una volta andato a scuola, le ho anche lette. E ho letto il testo di Jules Verne (che continuavo a chiamare Giulio), il cui dottor Oss, Ox nell’originale, aveva ispirato la serie uscita a puntate sul “Corriere dei Piccoli” dal 1964 al 1969.

In questa ricognizione mentale mattutina non riesco a mettere a fuoco nella memoria un episodio specifico. Allora sfilo dalla libreria la bellissima edizione della raccolta dei racconti di Milani e Nidasio curata da Laura Scarpa per Comicout e pubblicata qualche anno fa.

Mi ricordavo di abissi e sottomarini e la scelta era tra Il grande viaggio e La città sommersa. Entrambi sono ambientati in fondo al mare. Poi ho affiancato i tasselli, allineato le sinapsi e sono tornato a quando avevo cinque anni ed ero di fronte alla tavola con l’oblò da cui il dottore osserva un orrido pesce di profondità, in compagnia di una bella fanciulla. L’episodio impresso nella mia memoria è La città sommersa. Approfittando del silenzio – era mattina molto presto – mi sono messo a rileggere i testi, come e se fosse la prima volta. Ho avuto la conferma dell’intuizione improvvisa perché non si tratta di un semplice racconto illustrato e nemmeno di un fumetto. La versione di Oss di Mino Milani e Grazia Nidasio è qualcosa che sfugge a una catalogazione precisa. È bella e affascinante e basta. Anche se in apparenza potrebbe ricordare proprio le vecchie tavole del “Corrierino”, quelle con i testi in rima del Signor Bonaventura o di Sor Pampurio, si tratta solo di una parentela e nemmeno di primo grado. È un legame periferico che potrebbe giocare di rimando, a tratti ma neppure troppo, al primissimo Tarzan di Hal Foster, che sfoggiava anche lui i testi a piè di vignetta. Nel dottor Oss abbiamo un’illustrazione ricchissima e perfettamente compiuta nella sua unità che si moltiplica all’interno dei bordi precisi, in perfetta armonia con un testo che è, al contempo, descrittivo, evocativo e narrativo.
Il dottor Oss di Milani e Nidasio pare, allo stesso tempo, un romanzo e un fumetto. Una combinazione per palati molto fini: non per niente ha avuto pochi seguaci.

Alla fine ho trovato un nesso tra Oss e Gemma Bovery di Posy Simmonds, un fumetto che ho scoperto e letto molto più tardi; una trentina di anni dopo quando ormai, oltre ad avere imparato a leggere già da un po’, provavo anche a scrivere e a disegnare.

Quando questo volume bizzarro uscì per Hazard, avevo già iniziato a collaborare con Black Velvet di Omar Martini. Stavamo progettando insieme a Massimo Semerano Frontiera, romanzo incompiuto in otto capitoli, un’antologia di fine millennio che raccoglieva il contributo di diversi autori con brevi storie. Alcune le avevo scritte io, come gli intermezzi narrativi, brevissimi racconti illustrati da Carlo Angelozzi che facevano da cerniera tra un fumetto e l’altro. Erano rivolte a un pubblico di adulti, notoriamente poco avvezzi alla commistione tra immagini e parole, a meno che non si tratti di fumetto. È stato proprio in questo periodo che ho cominciato a sentire l’esigenza di esplorare le zone di confine tra diversi linguaggi. Volevo unire le mie passioni di sempre (fumetti e narrativa letteraria) in un unico flusso di racconto. Avevo idee ancora a livello embrionale, a intermittenza casuale, di sicuro molto frammentarie, tant’è che non ne parlavo con nessuno, o quasi. Ogni tanto, ma comunque di rado, con gli amici e colleghi più intimi come Massimo Semerano, Vanna Vinci, Menotti, Francesca Ghermandi e Omar Martini.

Posy Simmond con il suo Gemma Bovery aveva aperto una porta, L’aveva fatto con grande naturalezza. Non so quante volte avrò letto quel libro cercando di capirne il metodo. Mi spiace di non aver mai incontrato l’autrice ma, considerando che sono schivo, forse è stato meglio così. Ho sempre un po’ di timore a scoprire l’essere umano che sta dietro l’autore.

In quel momento di passaggio epocale, a cavallo tra due millenni, a Bologna, dove vivevo allora e continuo a vivere, c’erano di nuovo diversi fermenti editoriali. Dopo la chiusura sofferta di Granata Press, l’esperienza formativa con “Cyborg” e la ventata d’aria fresca di “Mondo Naif” c’erano stati alcuni anni di stasi. Poi, dalla metà degli anni Novanta, sono entrate in scena Black Velvet, Kappa Edizioni e Coconino Press nel 2000. Nel giro di qualche anno si ricompone la scena editoriale, questa volta con una netta virata verso il bacino delle fumetterie e delle librerie di varia. Si passa dalla rivista da edicola alla rivista libro. Nascono “Black” e ritorna “Mondo Naif” in una nuova incarnazione, in cui oltre ai fumetti ci sono redazionali, interviste e racconti. In quel periodo lavoro in Kappa come redattore. Mi occupo dell’editing di alcune testate manga per Star Comics, curate e prodotte proprio da Kappa Edizioni.

Ovviamente, data la mia passione per il calcio, mi era stato affidato “Capitan Tsubasa”, noto al pubblico degli appassionati di anime come “Holly e Benji”. Per me che non seguivo gli anime fu una scoperta piacevole e, editando le traduzioni, mi sentivo un po’ Sandro Ciotti o Enrico Ameri durante le radiocronache per “Tutto il calcio minuto per minuto”.

Oltre a seguire i manga, mi occupavo con il nucleo storico del primo “Mondo Naif” della sua nuova vita imminente. In quel 1999 intensissimo ero stato a lungo prima a Berlino e poi a Londra. Dall’esperienza berlinese nascono i racconti apparsi su Frontiera, dal periodo londinese nasce il racconto che appare su “Mondo Naif” seconda serie. Avevo deciso di riprendere Algida, la protagonista femminile de I Camminatori e incentrare su di lei un racconto illustrato. Per Tunnel Stiletto Heels avevo chiesto a Menotti, autore assai colto, di realizzare i disegni con quel suo bellissimo bianco e nero con tanti rimandi a Aubrey Beardlsey.

La storia scaturiva da un venerdì notte londinese, quando le strade si riempivano di ubriachi e ubriache all’uscita dei pub e discoteche, che approfittano di quel giorno di salario per fare baldoria. Tra i tanti incontri incredibili, a piedi, in metropolitana e poi su un bus che passava per Tottenham Court Road ero rimasto molto colpito dai piedi delle ragazze. Era scoppiata, importata dagli Usa, la moda di uscire d’inverno a gambe nude con sandali estivi con tacco altissimo. Gli stiletto heels. Questa moda, come tanti altri trend, era stata decretata da Anna Wintour, regina di “Vogue America” e in quel venerdì di un marzo particolarmente freddo per strada era tutto un trionfo di piedi nudi con sandali vertiginosi. Spesso le dita erano rossastre quasi fossero sulla via del congelamento, ma le ragazze non sembravano nemmeno accorgersene e continuavano a ridere e a bere come se niente fosse. La situazione mi era rimasta così impressa che quando mi misi a scrivere il racconto avevo deciso di fare vivere anche ad Algida quest’esperienza londinese. L’idea che avevo proposto a Massimiliano De Giovanni era strutturata in una narrazione che passava con disinvoltura dalle sequenze scritte, a quelle illustrate, alternandole con altre a fumetti. Avrei voluto fare le prove generali, per poi confrontarmi con qualcosa di più lungo e articolato. Purtroppo non andò. Forse non ero pronto io, forse non ero stato abbastanza convincente o forse Kappa non era l’editore giusto per l’esperimento.

Spesso c’è la convinzione che il pubblico non sia pronto, a volte addirittura che non sia mai pronto. Io penso che, al contrario, sia quasi sempre pronto perché chi legge vuole contemporaneamente tradizione e novità. Un desiderio schizofrenico, ma di sicuro un atteggiamento assai meno pavido di quanto si possa immaginare.

Per la nuova incarnazione di “Mondo Naif” riprendo un progetto iniziato anni prima quando Davide Toffolo e Giovanni Mattioli avevano creato la rivista “Dinamite” per Granata Press. Loving The Alien sarebbe dovuta uscire a puntate a partire da non ricordo quale numero. Ma poco importa visto che la rivista durò pochissimo e fu un vero peccato perché dopo anni finalmente c’era qualcosa che aveva deciso di parlare direttamente agli adolescenti. Parte di questo spirito trovò una dimensione concreta a metà di quel decennio quando ero entrato in un gruppo formato dai quattro Kappa e da Vanna Vinci, Giovanni Mattioli, Andrea Accardi, Davide Toffolo. Ci riunivamo nella vecchia sede di via del Rondone per parlare di fare dei fumetti insieme, ambientati tutti nello stesso presente, in una città, Bologna, che stava vivendo una nuova stagione intensa e creativa in pieno boom dei centri sociali occupati.
Così, impegnato com’ero con Loving the Alien a raccontare di sbarchi dei venusiani sul litorale cagliaritano e di nerd innamorati, ero costretto a lasciar perdere l’ipotesi di scrivere e disegnare altri racconti, con Algida protagonista, che oscillassero in zone di confine in cui si parlava una lingua anfibia.

Ma era solo un distacco momentaneo, quell’idea ribalda era come un tarlo che scavava, che mi lasciava una certa irrequietudine, che si manifestava a folate improvvise.
Quel 2000 sarebbe stato un anno denso, come il 1999 del resto, ma ancora più intenso. Tanto da risultare decisivo

Sarebbe stato l’anno della fuga da Bologna, dell’amore e del primo soggiorno in America.

Ci sarebbero stati tutti i presupposti per tornare a confrontarmi con la lingua anfibia di cui mi sentivo parlante solitario.

(continua)

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Una risposta su “La lingua anfibia delle storie – 1

  • sergio

    Ciao Otto, ho incontrato Posy Simmonds quando ho tradotto Gemma Bovery e ti posso assicurare che è molto simpatica. Anche Tamara Drewe è molto bello, edito da Nottetempo, tradotto da Susanna Raule (se ricordo bene).

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