Buongiorno a tutti e bentornati a #toutlemondesenfoutedelebassiste, la rubrica timida che non credeva di poter essere e quindi si è fatta gatto di Schrödinger. Non si poteva pensare a luogo migliore di QUASI per questa sovrapposizione quantistica – che rumore fa una rubrica off topic che cade nel bosco della rivista che non legge nessuno?
[Antefatto: il primo atto di questo poco prevedibile percorso vive sulla Blog Edition: inquadrate, cliccate e ripartite dall’inizio, così ci conosciamo meglio.]
Se rompere il ghiaccio può apparire un compito preoccupante, ecco che una volta superato il primo tornante in salita, ci pensa subito il «bene, allora aspettiamo il prossimo pezzo» a incombere sulla steppa interiore del «e mo’ che scrivo?».
D’altra parte anche il bassista (rigorosamente amateur) non aveva deciso di venire a esistere, almeno non motu proprio. Tuttavia, da qualche parte lungo gli anni del liceo qualcuno si avvicinò e propose: «Abbiamo deciso di mettere su un gruppo, ti va di suonare il basso?» Risposta: «Anche sì, ma cos’è il basso?» Dunque, fin dalle origini si propaga la condanna del bassista a essere poco considerato o ignorato. Da sé stesso medesimo pure, proprio nel momento della chiamata.
Ora, si potrebbe aprire un pericoloso canyon nei discorsi tra serendipità e predestinazione, libero arbitrio e impotenza, ho-sempre-sognato-di e che-me-tocca-fa-ppe-campa’. In fondo al burrone scorre il fiume della realtà – e sulla superficie luccica quella raccontata o ricordata o rielaborata, sotto invece… boh! Meglio lasciar perdere, tutte cose che portano a scannamenti che neppure monifisiti e duofisiti a Bisanzio. Quello che conta oggi è che, senza una strategia, è possibile ritrovarsi in condizione di esprimersi (ed è solo lì che si trova un certo respiro dall’apnea della vita moderna) con strumenti insospettati, oltretutto da una posizione di eminènce grise.
Cioè, proprio, quella del bassista che non si incula nessuno.
Come si fa? Avviene una virtuosa convergenza di diritti e doveri da una parte e di chimica musicale dall’altra. La volta scorsa si parlava di come del bassista si possano notare con facilità solo gli errori e mai i meriti (non ne ha di speciali, in effetti, da carpentiere deve far sì che tutto stia insieme, col giusto tono e punto) ma, questa configurazione un po’ proletaria da lavoratore invisibile/inaudibile, un po’ femminea («cos’è cos’è che fa andare la filanda?» – ma quante bassiste famose ci sono infatti*, più che chitarriste?) pesca in una sorta di potere ancestrale, quello di influenzare le vicende terrene dal profondo. Quando vai a vedere i Massive Attack dal vivo quelli hanno lì un armamentario in grado di investirti con una pressione sonora veramente prepotente a frequenze che scendono fino a 30Hz (scendendo ancora si inizia a non sentire più un tubo) con il risultato di farti anche un bel massaggio shiatsu al basso budellame. Comunque, anche senza arrivare a quegli abissi, quello che viene amichevolmente definito low end copre la gamma che va da 60Hz a 250Hz, cantina e pianterreno di tutto lo spettro udibile. Senza menarla troppo in lungo con i tecnicismi, quello che conta è che se l’incospicuo bassista opta per una certa nota invece di un’altra, vuoi per errore, vuoi per ribalderia e rivoltosità da quarto stato, accade che tutto il “colore” armonico cambia, in ragione di una preminenza, finalmente, di quel che sta in basso. Apollo ha la cetra, ma il basso è ctonio, viene dall’inferno pagano ed è in missione per conto di Ade.
Ora, nella musica “confezionata”, questa iniziativa non è mai accessibile nel momento dell’esecuzione (se non come errore) perché la trama è scritta e la devianza non può essere accettata. Sono ormai decenni che molti generi (il pop in primis) sono prodotti in modo anche assai articolato e raffinato – ma in quei casi, di solito, è chi compone, arrangia e produce che sceglie cosa va al piano terra. Al bassista resta il compito vertiginoso di eseguire perfettamente e con personalità una parte che potrebbe essere anche semplice, semplicissima, ma proprio per questo ardua da restituire in modo distintivo. Difatti, l’empireo dei session players non ha esattamente l’accessibilità di un’area di rifornimento in autostrada.
Nel rendere unica l’esecuzione di un gruppo di sparute note vive proprio LA dimensione fondamentale dell’espressività del bassista, forse pure la più difficile, dati proprio i vincoli e i limiti entro cui deve muoversi. Ma visto che qui non si è idolatri dell’ordine costituito, si segue un’altra orbita, almeno oggi, e si ricade nel jazz dei dopolavoristi, una non-disciplina particolarmente oltraggiosa e divertente, invisa perlopiù all’accademia. Sì perché anche il jazz è assurto, ormai da molto tempo, almeno nel contesto della formazione professionale, a livelli di definizione di canoni e ortodossie che competono con quelli della musica classica – ma anche di questo non ce ne frega niente perché non ci riguarda.
Quello che ci importa è che, come una specie di messaggero delle profondità che non può non essere udito, puoi arrivare a decidere tu come suona (quasi) ogni momento. Certo, come demiurgo dilettante hai davanti una serie di metaforici rituali magici che non sai bene come usare, nello scorrere veloce del pezzo non capisci più se quel tanto di nozioni di armonia che ti consentono di operare una scelta decente risiedano più nelle dita, nel cervello o da qualche parte tra i due. Fatto sta, che, come per gli assoli, quando l’incastro cade bene, da fastidiosa creatura infera di terza classe ti trasformi, per un lasso di tempo esiguo ma tangibile, in un ombroso ma possente arcangelo delle basse frequenze. E ti dici che ne valeva la pena. Ma quanto spesso possiamo aspirare a questa benedizione?
[Spoiler: non spesso, perché le condizioni giuste si incontrano raramente al di fuori di una jam session (vera, non quelle finte dove i soliti amici suonano sempre le loro cover)].
La maggior parte della musica che ascoltiamo e ricordiamo gira, è inevitabile ritornarci, su numero abbastanza ridotto di schemi. È un po’ come se, nella biblioteca di Babele, abitassimo, e sai che sorpresa, solo le stanze che contengono volumi leggibili. Il gusto è quello della lettura, la musica la voce di chi legge. La ripetizione poi, spesso, sconfigge il significato, si fa litania e pulcino Pio. Ma, fuori dal perimetro, oltre certe porte, c’è l’ignoto, l’alieno, ci sono i leoni. E, oltre alla cacofonia combinatoria di quelli che contengono solo concatenazioni casuali di caratteri (sarà mica il free jazz?), ci sono i libri con ancora spazio dentro, quelli aperti, pensati per chiederti di andare con loro a scriverli ogni volta in un modo nuovo e diverso.
A un certo punto della storia contemporanea arriva Coltrane e, ragionando a partire dagli schemi, dai rapporti («all musicians are subconsciously mathematicians» diceva Monk) tra numeri e punti su quel mappamondo dell’armonia che è il circolo delle quinte, trova l’enunciazione di una chiave quasi cabalistica che consente di accedere a un universo ulteriore di nuove stanze, dove, anche con le consuete familiari cadenze, si percorrono tuttavia rotte che possono portare letteralmente ovunque.
La prima volta che ho ascoltato Giant Steps, mi è parso una gran cacofonia incomprensibile. Poi, con calma, con un po’ di aiuto (grazie, Gary Willis) ho iniziato a capire come ci si potrebbe entrare e ho visto che anche tutto questo discorso che ho appena fatto sull’influenza dei movimenti del basso sulla resa armonica del pezzo non è che una frazione esigua di quell’universo che sembra esistere là fuori. Ciò detto, io su Giant Steps non ci so ancora suonare, né saprei dire come sarà quando smetterò di perdermici. Però c’è di buono che nello sperdimento trova fortunosamente un senso anche la libertà – non ha grande importanza se il percorso è in un labirinto o in un universo in espansione, o se le biforcazioni allontanano irrimediabilmente o meno da una “via”. Nel dubbio, si fa come diceva Yogi Berra: «When you come to a fork in the road, take it».
A quel punto realizzi che è la musica registrata a essere una stranezza e che l’accostamento con il libro è intrinsecamente sbagliato (meno, invece, quello con la biblioteca di Babele). Se a Bach potessimo raccontare che ascoltiamo sempre la stessa esecuzione di ciascun pezzo, o poche sue varianti, non gli strapperemmo certo un sorrisone.
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* Gail Ann Dorsey, Carol Kaye, Esperanza Spalding, Kim Gordon, Suzi Quatro, Melissa Auf der Maur, Kim Deal, Paz Lenchantin, giusto per nominarne qualcuna.
È un percorritore di sentieri interrotti, un professionista dell’amatorialità spinta, un fan della bassa visibilità. Ha studiato amenità umanistiche ma anche il bric-à-brac aziendale. Con il secondo riesce a pagarci i conti. Lettore compulsivo di TS Eliot, Céline, Pynchon, Heller, Vonnegut, PK Dick. Ciclista da strada incidentato, ormai dismesso, curriculum da improbabile sopravvissuto. Quando formarono la band era rimasto solo il basso e quello prese. Nei decenni si è rivelata una non-scelta piena di senso.