Il fumettista ambivalente

Peppe Liberti | Il quark e il pinguino |

Alfred E. Neumann, il ragazzotto dai capelli rossi e dal sorriso sdentato, il “cover boy” di “Mad”, celebre rivista statunitense di satira e parodie assortite, questa volta è preoccupato davvero. ”Cosa? Io preoccupato?” Sì, il virus dilaga e l’economia viaggia verso il collasso, i disoccupati muoiono di fame e le attività commerciali chiudono, ma c’è un’altra chiusura, attesa e certamente inevitabile, con cui bisogna fare i conti. Per scoprire di cosa si tratta basterà piegare la pagina un paio di volte seguendo le solite istruzioni. Così, in alto su una nuvola, apparirà il volto sorridente dell’autore e giù, tra due strade affollate, le insegne dei negozi comporranno la frase che non avremmo voluto leggere: mai più “Jaffee Fold-Ins”. Al Jaffee, 99 anni appena festeggiati, 79 dei quali passati a guadagnarsi da vivere scrivendo e disegnando, ha detto basta.

I lettori di “Mad” avevano avuto l’opportunità di potersi divertire coi pieghevoli di Jaffee sin dall’aprile del 1964. Si trattava di un pubblico allenato a sfogliare “Playboy” e “Life”, qualcuno persino “National Geographic”, e ad aprire i grandi paginoni già ripiegati al loro interno, i “fold-out” appunto, per poter godere della visione di una discinta Marilyn, della lettura di un testo di Frank Zappa sul “nuovo rock” o dei particolari di una dettagliatissima mappa di Londra. Il primo “fold-in” in assoluto, «un pieghevole a buon mercato, di una sola pagina e in bianco e nero», come recitava il testo posto sopra l’illustrazione, aveva giocato, in maniera tecnicamente ancora poco sofisticata, col destino dei neo-sposi Elizabeth Taylor e Richard Burton. Elizabeth, giunta al quinto matrimonio, veniva infatti mostrata ancora una volta incredibilmente pronta a fornire una chance a un eventuale nuovo spasimante (piegare per credere).

In un’intervista al “Guardian” di qualche anno fa, Jaffee ricorda di aver cominciato quasi per scherzo ma che la sua proposta era stata approvata dall’editore di “Mad”, Bill Gaines, senza battere ciglio. «Non ti preoccupare, Al», gli aveva detto Al Feldstein, che era succeduto a Harvey Kurtzman alla direzione della rivista, «i ragazzi ne compreranno due copie: una per piegarla e l’altra da conservare». Jaffee, che a “Mad” era arrivato a metà degli anni Cinquanta del secolo scorso per sceneggiare fumetti, con la sua mirabile e originale sintesi di satira e arte, aveva dato la svolta decisiva alla sua carriera. Da quel momento in poi i temi affrontati sarebbero stati quelli tipici della rivista e dell’universo nella quale era immersa. Quelli sono gli anni dei “New York intellectuals” (Hannah Arendt, Saul Bellow e Susan Sontag, per il gusto di citarne qualcuno di noto), segnati dalle opere di gente come Bob Dylan, Lenny Bruce e Stanley Kubrick. Le pagine di “Mad” esprimono le medesime preoccupazioni e critiche in maniera forse ancora più radicale, a volte anche infantile e volgare. È il mito dell’America tollerante e democratica che viene colpito, il razzismo, l’intolleranza e il bigottismo che la pervadono. Jaffee sa come fare ed è completamente libero di farlo.

Nell’ottobre del 1968, per esempio, l’ennesimo e tutt’altro che “ridicolo Mad Fold-In”, era servito a raccontare le mai sopite turbolenze razziali di una nazione in quel momento invischiata in maniera inestricabile nella guerra del Vietnam. L’illustrazione dai colori esagerati al centro della pagina (il colore aveva fatto il suo esordio nel numero di giugno dello stesso anno) era inequivocabile: una nube a forma di fungo, generata da una tremenda esplosione nucleare, stava trascinando verso l’alto grattacieli, ponti, automobili e monumenti. «Gli Stati Uniti, la nazione che per prima ha scatenato l’Energia Atomica», c’era scritto, «hanno sviluppato un’altra, ancor più intensa, forza esplosiva. E come l’Energia Atomica, questa nuova forza può essere sia distruttiva sia benefica, dipende da come viene usata.» La risposta al quesito su quale potesse essere era suggerita a fondo pagina: «Far esplodere città affollate è un utilizzo deleterio di questo nuovo grande potere. Solo una politica di costruttivo uso pacifico è la risposta.» E la risposta era lì, in piena vista e imprevista, una volta ripiegato il foglio, il fungo atomico si sarebbe tramutato in un pugno chiuso erto verso il cielo e sotto sarebbe magicamente apparsa: BLACK POWER.

Al Jaffee aveva ancora una volta colpito nel segno, mimetizzando gli indizi di una realtà che con la partecipazione attiva del lettore diventava improvvisamente riconoscibile e ovvia, rivelata nascondendo, ripiegando e non spiegando. Il pugno alzato è il medesimo che il giorno 16 di quello stesso mese, alle Olimpiadi del Messico, Tommie Smith e John Carlos, rispettivamente primo (con primato mondiale frantumato) e terzo nella gara dei 200 metri piani, avrebbero alzato al cielo durante la cerimonia di premiazione. Una scena indimenticabile e un gesto che costerà ai due l’espulsione dal villaggio olimpico e una vita grama una volta ritornati a casa.

Trovare ogni santo mese, agosto escluso, per 56 anni, un’idea brillante e praticabile non deve essere stato semplice. Realizzare tutto rigorosamente a mano, gli schizzi a matita e poi il dipinto, ancor meno. Questa specie di miracolo Al Jaffee non ha più voglia o non è più in grado di farlo. Ha quasi cento anni e attorno a lui si agita scomposta una nazione che sembra non imparare mai dai propri errori. Le cose, lui, in fondo ce le ha già spiegate tutte.

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