Originariamente pubblicato su “Fumettologica” il 5 Marzo 2014.
Entro in un’aula semideserta a parlare di graphic journalism. Lo faccio perché me lo chiede un carissimo amico e perché, in fondo, mi piace molto raccontare di fumetti. Mi sento un po’ come il depositario di una storia, un cunto, una zirudela. Siccome le parole non mi bastano, ho preparato una carrellata di immagini perché, come ha detto Frank Zappa a proposito della musica, parlare di fumetti è come ballare di cinema.
La quindicina di studenti che segue il laboratorio è mediamente attenta e curiosa. Parlo di giornalismo, autobiografia, racconto storico, diario di viaggio… Di tutte quelle cose, insomma, che Elettra Stamboulis e Gianluca Costantini mi hanno insegnato a chiamare “fumetto di realtà”. Presento un quadro vagamente storico per poi concentrarmi su alcuni casi. Gli studenti mi seguono mentre parlo di satira nel fumetto americano e sfioro Pogo, Jules Feiffer e Doonesbury; sbandano un po’ annoiati di fronte all’irruenza dell’underground che, partendo dai semi gettati da Harvey Kurtzman, tocca Robert Crumb, Trina Robbins, Harvey Pekar fino ad Art Spiegelman; forse si stupiscono per la Milano di Valentina Rosselli, il rumore di realtà di Alack Sinner, i sogni di Valentina Melaverde, il piombo del commissario Spada e la cocaina dello Sconosciuto; tirano un sospiro di sollievo di fronte a Shigeru Mizuki, Hector German Oesterheld e Raymond Briggs; sentono di essere arrivati a destinazione quando mostro loro pagine di Maus di Spiegelman, di Palestina di Joe Sacco, di Persepolis di Marjane Satrapi, dei diari di Lewis Trondheim e Fabrice Neaud, di Pillole blu di Frederik Peeters, di Fun Home di Alison Bechdel e di LMVDM di Gipi.
Certo. Sono scelte arbitrarie e parziali, ma la mia storia deve durare solo un paio d’ore. In un tempo così breve, posso solo sperare di dare qualche indicazione bibliografica o poco più.
Quando finisco la mia zirudela, c’è spazio per qualche domanda. La studentessa più interessata di tutti è chiaramente quella che non è là per i crediti. Sta preparando la tesi e si è imbucata nel laboratorio: ha un cognome che sembra uno pseudonimo ninja e questo me la rende subito simpatica. Mi dice che la sua è una tesi “sperimentale” (qualunque cosa ciò voglia dire) e che vorrebbe parlare dei grandi autori italiani. Cita i nomi che mi sarei aspettato: Fior, Gipi, Igort, … Poi, aggiunge Toffolo. Per un attimo fraintendo e mi illumino. Poi capisco che si sta riferendo all’autore di Graphic novel is dead e so che è giusto così. Ma un po’ mi dispiace. E non perché Davide Toffolo non meriti di essere studiato, ma, più semplicemente, perché credo che i pochi – pochissimi, maledizione! – fumetti di Antonella Toffolo noi, i lettori, dovremmo riguardarli periodicamente.
Perché è bello essere amati.
Qualche giorno fa, Matteo Stefanelli mi ha mandato un messaggio, chiedendomi se mi andasse di scrivere un ricordo di Antonella e io, forse un po’ per snobismo, ho detto che non scrivo ricordi, men che meno di persone cui ho voluto bene. Poi quando è giunta la scadenza per scrivere “Resiliente”, mi sono accorto che per giorni non avevo fatto altro che pensare allo scratchboard. Una tecnica semplice: una tavoletta di cartone, ricoperta da un sottile strato di gesso, su cui è stato distribuito, uniformemente, dell’inchiostro nero; con una punta, si gratta l’inchiostro, per lasciar emergere il bianco dal fondo.
È la tecnica che usano Thomas Ott per i suoi fumetti silenziosi, Hans Binder per le illustrazioni dei Fratelli neri e Fabian Negrin per Fumo negli occhi. Tre disegnatori, tecnicamente bravissimi, per i quali lo scratchboard è lo strumento per far percepire al lettore un’oscurità opprimente.
Era la tecnica usata anche da Antonella Toffolo. Per lei lo scratchboard non era una scelta stilistica per far sentire chiaramente il dominio del buio. Per lei la carta gessata era l’unico modo possibile per raccontare le storie che aveva dentro.
Scavare nel buio per lasciare emergere la luce è, di per sé, un’idea poetica, che rischia di eccedere in lirismo e far perdere la voglia di leggere quelle storie.
Poche ciance. Il materiale narrativo su cui indugiava Antonella era, sempre, la memoria. Raccontare i ricordi, le storie orali, le tradizioni significa confrontarsi col muro della smemoratezza. Esattamente come fanno tutti gli autori di quei modi del racconto che mi piace chiamare “fumetti di realtà”. Ad Antonella lo scratchboard serviva proprio a rimuovere lo strato opacizzante del tempo, per far riemergere i propri ricordi. E mica tristezze, rimpianti, nostalgie o tutta quella paccottiglia reazionaria che ci fa guardare con affetto a un passato bellissimo specie se confrontato con le cupezze presenti. I ricordi di Antonella sono ricordi di storie, di racconti domestici, di filastrocche, di zirudele, raccontate perché si gioisca adesso.
Antonella è morta quattro anni fa, nel febbraio del 2010, e Topipittori, la casa editrice che ha pubblicato i suoi due ultimi libri, l’ha ricordata ospitando sul proprio blog un fumetto del 2002: Brindisi all’acqua canterina.
E mentre rileggo questa storia lieve scopro di stare bene.
“Da puvratt e da gnurant, av salut tot quant.”
Scrive e parla, da almeno un quarto di secolo e quasi mai a sproposito, di fumetto e illustrazione . Ha imparato a districarsi nella vita, a colpi di karate, crescendo al Lazzaretto di Senago. Nonostante non viva più al Lazzaretto ha mantenuto il pessimo carattere e frequenta ancora gente poco raccomandabile, tipo Boris, con il quale, dopo una serata di quelle che non ti ricordi come sono cominciate, ha deciso di prendersi cura di (Quasi).