Competenza, talento, tecnica, gusto, stile, cosa diamine rende un bassista «bravo»? E, soprattutto, perché vorresti essere «bravo»? Da quando è arrivato l’interweb non hanno fatto che moltiplicarsi le occasioni in cui realizzi che c’è un mondo intero di gente che vive con gli strumenti al collo come fossero un’estensione corporea della loro materialità biologica e un kalashnikov espressivo della loro corteccia cerebrale. E non solo trovi dopolavoristi (come te e me, ma noi facciamo schifo e lo sappiamo) stellari, ma gente di tutte le età e di ogni genere (le dodicenni che ci stracciano…)! E sono tutti bravi, miseria, bravi da morire, ciascuno in modo preciso e personale, e poi fanno pure i video fatti bene e si registrano a puntino, impeccabilmente, con due, tre, quattro videocamere, con un audio sincronizzato senza la minima sbavatura. Si prova a criticare l’action delle corde troppo bassa, il movimento della testa da piccione, le smorfie, i virtuosismi sovrabbondanti ma c’è poco fa fare. Noi non ci si arriva. Non ci avviciniamo neppure. Probabilmente non siamo neppure in grado di comprendere cosa si prova a suonare così.
A quel punto (ma anche in altri punti), tu e io, che non siamo amici ma patiamo la stessa pena intera, senza neppure il sollievo della condivisione, ci ritroviamo a guardare al nostro strumento come un ciocco di elettro-legno ostile, ostentante il suo sartiame perverso di corde spietate. Siamo già entrati in loop, no, miei cari non-lettori? Il pozzo gravitazionale della frustrazione modella lo spazio tempo in modo subdolo, non dice niente di esplicito e si prende tutto, subito. Questa energia oscura, d’altro canto, si è affacciata già tra le prime righe di questa rubrica ectopica, dagli esordi.
E si dirà, ciccio, è un ingrediente tuo, ne sei portatore (mal)sano! Senza dubbio, non lo nego né rinnego affatto – ma se l’avete riconosciuto ci siete dentro pure voi, garantito, e pare una palude stigia dantesca, tutti giù, affondati fino al collo nella fredda fanghiglia.
Da questa parte dello schieramento rischiamo tutti di diventare Wertheimer e lo Steinway lo molliamo, a gratisse, alla figlia del maestro del villaggio perché possa massacrarlo con tutta la sua imperizia. Vabbe’, non abbiamo incontrato Glenn Gould – però il talento della folla globale, pure se leggermente truccato qua e là a colpi di plugin audio, ci butta giù comunque. Il Soccombente di Thomas Bernhard porta il discorso del gettare la spugna quando incontri il talento superiore a livelli da supernova, noi ci si limita a quello «reflusso gastroesofageo».
La sintomatologia delle sindromi da compensazione del talento latitante racchiude veramente tante manifestazioni: una, basata su uno spostamento dell’attenzione (una perversione, in senso freudiano) dalla bontà della musica a quello dello strumento come oggetto e non come mezzo, è la GAS, Gear Accumulation Syndrome, che trasforma il bassista in una specie di collezionista non-voyeur, vampirizza i bilanci familiari e sottrae Lebensraum domestico a colpi di amplificatori, rastrelliere, custodie. Ma lo spirito che la caratterizza vive anche in tutti quei tentativi di aggregare un’approssimazione di difesa dell’(illusione di) identità intorno a oggetti, fisici o virtuali che siano. I libri e i metodi più raffinati, quelli che trovi solo su Abebooks se ti dice culo, il diario segreto di Ron Carter (il bassista più elegante della storia, anche come outfit, sia chiaro), le dispense del maestro Taldeitali, tutto il fronte cartaceo (e la carta serve, poche storie, ma ne parleremo un’altra volta) che, a sua volta, si unisce a quello dell’hardware (dieci bassi, 4 corde, 5 corde, 6 corde, 7 anche, dai, fretless, acustici, elettronica passiva e/o attiva, vintage, appena usciti – e poi ancora ampli valvolare, ampli classe D, combo, cabinet 4×10, 2×10, 1×15, 8 ohm, 4 ohm, rack effetti, pedaliera, computer, digital audio workstation, interfaccia audio, cavi, microfoni, le corde così e le corde cosà). Si unisce per fare che? Comporre un repertorio di acrobazie, essenzialmente, l’equivalente musicale del «look Ma, no hands» così ben deplorato da David Foster Wallace.
Damian Erskine è un signore che per dieci anni, a partire dal 2009, ha tenuto una rubrica settimanale sul sito No Treble per rispondere alle domande dei lettori. In una delle cinquecentocinquantatré occasioni qualcuno aveva chiesto cosa contraddistingue un bravo bassista. Erskine, che, oltre a essere un musicista di rilievo, si intende non poco di didattica, imposta la sua risposta intorno a una distinzione che non possiamo replicare nella lingua italiana, quella tra «bassist» e «bass player». Il primo termine, dal suo punto di vista, contraddistingue il bassista che suona al servizio del pezzo e della band, quello che, come potete immaginarvi, tendi a non notare, anche perché non è proprio previsto che si noti. Il secondo, il bassista che suona il basso come se tutto il resto potesse anche non esistere. I due bassisti possono ovviamente coesistere nello stesso individuo come ingredienti complementari, e quando accade è una bella convergenza – insomma, la gamma di possibilità si fa veramente ricca, ricchissima.
Ma quale delle due versioni è più divertente?
Risposta breve: boh!
Un po’ più di impegno: ma divertente per chi? L’ottimo lo abbiamo se il bassista e i suoi compagni di band si divertono e il pubblico con loro. Il valore guida dovrebbe essere questo, mi pare che non ci sia da confondersi. Però suonare davanti a un pubblico già era cosa rara (e impervia) prima, figuriamoci adesso. Ci si può divertire anche in sala prove, no? Vero, ma quando non gira fa veramente male. Anche da soli, soprattutto in questo periodo di distanziamenti e necessarie prudenze? Sì, assolutamente sì, però in quel caso il Moloch con cui ci si confronta è più l’idealtipo del bass player, lo sparatore seriale di arabeschi ricercati. Ecco, quando ci facciamo prendere dalla frustrazione nei nostri salotti e camerette, probabilmente stiamo usando il filtro della seconda accezione e ci stiamo totalmente dimenticando della prima.
Erskine presenta la sua opinione, si prende anche dei rischi («Jaco overplays») ma la possibilità di dargli torto approssima asintoticamente lo zero.
La soluzione mi sfugge proprio, io stesso quando studio, sono più condizionato a pensare come bass player, in termini di «more is more» e «faster is better», mi comporto come se volessi esattamente andare in quella direzione. Ma so che quando mi trovo con altri umani a suonare o anche solo a seguire un pezzo con una parte «asciutta» (esempio: Mourning Air dei Portishead) il valore del bassist torna quietamente a reclamare il suo ruolo. E mi rendo conto che quelle quattro note che devo far risuonare perentoriamente certe, salde, per almeno tre minuti e mezzo vengono fuori ancora goffe e impacciate.
Non so cosa succede quando possiedi, e devi gestire, un armamentario articolato di strumenti, di riferimenti, di pattern e di arzigogoli, materiale ne ho poco e le risorse sono limitate. Un pensiero che emerge, però, è che disseminare il proprio spazio fisico e mentale di oggetti, frammenti, di generazioni successive, a ondate, di «nuove» soluzioni, «nuovi» trucchi, somigli tanto a quello scenario neppure tanto teorico che va sotto il nome di sindrome di Kessler.
Una civiltà tecnologica, quando entra nella fase di sviluppo della missilistica, impiega poco tempo prima di iniziare a mettere in orbita intorno al proprio pianeta satelliti per le finalità più diverse, su orbite in pari misura eterogenee in ragione degli usi. Diventa solo questione di tempo prima che lo spazio orbitale diventi sufficientemente affollato da oggetti attivi, non più attivi e da detriti derivanti dalle collisioni, da far sì che non sia più possibile, per un vettore spaziale, lasciare il pianeta in sicurezza.
Comunque, tornando al whisky sour del 50% sconforto & 50% ammirazione, e gettando il quindicinale ponte in direzione della tribù che mi ospita, mi viene da recuperare una scoperta dell’acqua calda che ho fatto un po’ di tempo fa. Avete presente Richard McGuire? Ecco, quello che non sapevo è che è anche il bassista (in una accezione molto «bassist») dei Liquid Liquid, un gruppo non esattamente trascurabile. Tra l’altro, il più famoso dei loro pezzi, Cavern, è stato campionato (indebitamente) nel 1983 per dare vita a un altro, White Lines, brano rap che non ci ha più mollati, tanto che pure i Duran Duran ne hanno fatto una versione nel 1995, continuando a proporla fino ai giorni nostri. Andate a sentirvi l’originale dei Liquid Liquid, non potrete non riconoscere il motivo. Ecco, quello è un esempio di linea di basso che serve il pezzo ed è pure protagonista. In più il suo ideatore fa altro, principalmente, nella vita con, come dire, un certo successo. Altro giro di whisky sour, grazie, offro io.
Intanto noi, come fenicette borghesi, continuiamo a risorgere quasi quotidianamente, sul far delle venti, dalle ceneri del pezzo che non riuscivamo a suonare il giorno prima, o quello prima ancora. Ci riusciamo oggi? No, forse no, però in quei venticinque minuti prima o dopo il pasto serale, rifacciamo uno o due esercizi di tecnica, attacchiamo il metronomo, proviamo a suonare a tempo gli accenti sui sedicesimi, temperiamo la hybris, andiamo a Canossa in bici a pedalata assistita e ci facciamo un idromassaggio low-cost di umiltà, in una matrioska di miti in scala bilocale cinquantacinque metri quadri.
Perpetuiamo così questa incompiutezza sghemba, non abbandoniamo le passioni e il mondo resta duḥkha per sempre.
Ma, nonostante tutto, potremmo essere ancora vivi.
È un percorritore di sentieri interrotti, un professionista dell’amatorialità spinta, un fan della bassa visibilità. Ha studiato amenità umanistiche ma anche il bric-à-brac aziendale. Con il secondo riesce a pagarci i conti. Lettore compulsivo di TS Eliot, Céline, Pynchon, Heller, Vonnegut, PK Dick. Ciclista da strada incidentato, ormai dismesso, curriculum da improbabile sopravvissuto. Quando formarono la band era rimasto solo il basso e quello prese. Nei decenni si è rivelata una non-scelta piena di senso.