Nel 1932 il più importante avvenimento culturale dell’Italia crociana, che ancora fa fremere storici e sociologi, è la fondazione della “Settimana Enigmistica”. Pensa. Mentre il nostro esercizio intellettuale era (e purtroppo è) quello di passare il tempo risolvendo cruciverba, rebus e a comporre palindromi, nella repubblica di Weimar invece si dibatte animatamente della sopravvivenza della Staatliches Bauhaus, ferocemente avversata dai nazisti che presto prenderanno il potere e la faranno chiudere.
In questo clima Bertold Brecht e Slatan Dudow scrivono e dirigono un film bellissimo e fondamentale: Kuhle Wampe. La sequenza finale, girata proprio dallo stesso Brecht è di una bellezza fulminante. Sulla metropolitana berlinese i viaggiatori (socialmente eterogenei) discutono del prezzo del caffè. Da lì la discussione finisce sui problemi del sistema sociale vigente. Un borghese benestante pone la domanda di rito, retorica e pessimista: allora il mondo chi mai lo cambierà? Una giovane e bella operaia gli risponde: «Die denen sie nicht gefallt». Quelli a cui non piace.
Ecco, io semplicemente penso che compito di chi vuole essere critico non sia risolvere giochini enigmistici, ma cambiare quello che non gli piace. E fin qui tutto bene.
Il problema nasce quando dal desiderio/necessità di cambiare quello che non ti piace, arrivi al passo successivo: il come. A voler essere brecthiani si potrebbe risolvere il problema in modo anche spiccio: dicendolo. Dicendo quello che non ti piace, e spiegando perché.
Ma non sono brechtiano. O forse non lo sono più. Sono più di trent’anni (il primo intervento lo pubblicai su “Fumo di China” alla fine degli anni Ottanta) che faccio questo mestiere, il critico di fumetti, e c’è stato un tempo che quello che non mi piaceva lo dicevo duro e dritto. Non è mai cambiato niente.
Allora mi chiedo: se avesse avuto ragione Walter Benjamin? Se il critico dovesse prima di tutto essere “stratega”, complice e alleato della produzione artistica, compartecipe se non motore organizzativo? In questo caso l’organizzazione strategica del critico dovrebbe tendere a strappare le tecniche a ogni considerazione neutrale che le renda appannaggio dei tecnici del “saper fare”. Infatti ogni tecnica contiene un preciso segnale direzionale che l’autore tende a nascondere e l’accademico a codificare a esclusivo vantaggio del proprio circolo di iniziati. Il critico benjaminiano avrebbe il dovere di interpretare e svelare questo segnale direzionale, strapparlo agli accademici e svelarlo ai lettori.
Il 1936 fu un anno di quelli straordinari, che per la straordinarietà di ciò che vi accadde, andrebbero raccontati giorno per giorno. Mussolini proclama l’Impero; il mediomassimo Max Schmeiling sbatte al tappeto alla dodicesima ripresa Joe Luis (si prenderà la rivincita, Luis, nel 1938 e alla prima ripresa); esce Gone with the Wind, il romanzo; scoppia la guerra civile spagnola; Jessie Owens vince quattro ori nell’atletica alle Olimpiadi di Berlino; a quelle stesse Olimpiadi Trebisonda Valla detta Ondina vince il primo oro femminile della storia delle Olimpiadi moderne negli 80 metri a ostacoli; Buenaventura Durruti viene ucciso durante l’assedio di Madrid; John Maynard Keynes pubblica un testo destinato a cambiare alcune cose: The general theory of employement, interest and money. Tutti fatti che conosci.
Una cosa invece meno conosciuta è che quell’anno lì, Aleksandr Ivanovic Oparin dà alle stampe un testo fondamentale quanto e più di quello di Keynes: L’origine della vita sulla terra In questo studio il biologo sovietico ci libera da tutte le panzane creazioniste e panspermiche e stabilisce i fondamenti dell’abiogenesi. Ora. Di questo siamo certi. La critica si fonda per abiogenesi. La vita è sorta casualmente dalla materia inorganica. La critica sorge spontanea e casuale dalla lettura delle storie. Perché, come diceva Benjamin le storie sono come le puttane. Entrambe si possono portare a letto ed entrambe hanno un loro genere di uomini che vivono di loro e le maltrattano. I magnaccia per le puttane. Gli autori per le storie. Entrambe figliano molto. I figli delle storie sono i critici. Grandissimi magnaccia con il complesso di Edipo. Nessuno meglio di loro sa come funzionano.
Momento fondamentale del nostro agitarci nel mondo è la rielaborazione teorica di questa prassi quotidiana. È cosa che richiede una preparazione culturale adeguata (almeno le scuole dell’obbligo) e che passa necessariamente attraverso una formazione attiva il cui fondamento è l’esperienza consapevole di quella stessa prassi che ci è necessario analizzare. Non affrontare consapevolmente questa rielaborazione ci lascia parcheggiati nel mero e banale uso della tecnica: prigionieri di un circolo vizioso che ci impedisce l’incontro con la verità. Esercitare CRITICA significa sapere che l’acqua del fiume scorre e scorrerà per sempre (non c’è nulla di mistico in quel sempre, è semplicemente da intendersi e limitarlo riferito alla durata della vita umana), quindi non aspettare che finisca di scorrere, ma cercare un guado. Trovarlo è poi solo un momento accessorio.
L’importante è cercare.
La critica nasce per abiogenesi dall’incontro, nel brodo primordiale della comunicazione umana, dell’individuo con la narrazione. Ma il punto è che questa abiogenesi, per scatenarla, sono necessarie alcune particolari condizioni. Un po’ come per l’abiogenesi biologica teorizzata da Oparin e poi dimostrata sperimentalmente da Stanley Miller, la materia è lì poi succede questo e quello e spunta la vita. Uguale. Le storie sono lì, scorrono nel fiume lento della tecnica narrativa, e tu le leggi o le ascolti o le guardi. Quale catalizzatore trasforma il tuo galleggiare in questo fiume infinito in esercizio critico? In rielaborazione teorica? Cultura e consapevolezza. Non cultura accademica, per carità (te l’ho detto, basta la scuola dell’obbligo), ma intesa come un’attitudine concettuale e argomentativa di assoluta totale apertura verso prospettive originali che diventino – pur tenendone sempre presente la provvisorietà che tutto è e deve essere falsificabile – conseguenze per il proprio pensare e per il proprio agire.
Questo è quello per cui ancora oggi mi carico in spalla questa vecchia borsa di cuoio logoro, piena di attrezzi.
Non fa un cazzo da anni, ma è invecchiato lo stesso. Vive a Milano, e non potrebbe farlo in nessun’altra città italiana. Legge e parla di fumetti dal 1972 (anno in cui ancora non sapeva leggere). Ha una cattiva reputazione, ma non per merito suo. Ama e praticava la boxe, poi si è rotto. Beve tanto in compagnia di gente poco raccomandabile, tipo Paolo con il quale – per colpa di una di quelle bevute – si è ritrovato a curare QUASI.