Originariamente apparso su Ex Libris: I Libri e noi, a cura di Mirella Mazzucchi, Mariafranca Spallanzani, Paolo Tinti, Francesca Tomasi, Bononia University Press, Bologna, 2017.
Leone si è addormentato. È malato. Nuccia, sua moglie, mia zia, dice che ne avrà per poche settimane. A vederlo ora non lo diresti, ma un tempo era alto, grande e fiero, portava in giro le sue carni con incedere sfacciato e sorrideva con la tronfia presunzione del messinese. Il dolore maschera la memoria e addolcisce i ricordi e io conservo l’immagine che ne avevo da bambino: il sarcasmo esasperante, il siciliano strascicato, la risata grossa, l’umorismo greve, l’orgoglio isolano… Per me, cresciuto in un’area periferica in provincia di Milano, quel suo essere cittadino era un mistero. Quando hai nove anni e i confini del tuo mondo sono chiusi tra il cortile di cemento della scuola elementare e il campo da calcio, Messina diventa un territorio inesplorato più misterioso della Malesia di Sandokan e di Kabir Bedi.
Il solo luogo più affascinante di Messina era la stazione centrale di Milano. Un posto in cui andavo raramente, con mio padre, per accogliere i parenti che venivano a trovarci dalla Sicilia. Soprattutto Leone e Nuccia. In stazione c’erano edicole enormi, piene di fumetti che nel chiosco di provincia che frequentavo, con devozione e continuità, arrivavano di rado. Una sera di fine agosto del 1977. Non ricordo quasi nulla. Non ho memoria dell’odore della città, della magnificenza dell’androne della stazione, del caldo umido milanese, dell’attesa per un treno a lunga percorrenza che aveva accumulato ritardo… Però ricordo bene quell’edicola, così grande da offrire al mio sguardo le copertine variopinte di molti albi a fumetti: ah, quanto amavo i supereroi! E ricordo anche che Capitan America era il più noioso di tutti, vestito con i colori della bandiera e fedele a un patriottismo che dal cortile di casa mia sembrava ridicolo. Non so dire per quale strana ragione chiesi e ottenni l’ultimo numero del quindicinale a lui dedicato: forse perché in copertina c’era il Teschio Rosso, terribile arcinemico nazista; forse per quel titolo catastrofico strillato in copertina, “Disastro sul Bronx”; o forse, più semplicemente, perché a volte nella vita si è fortunati.
Quell’albo sarebbe probabilmente rimasto uno degli innumerevoli fumetti sfogliati durante l’infanzia, e presto dimenticati, se non ci avessi trovato una sorpresa. A me Capitan America non piaceva e infatti non ricordo cosa facessero lui e il Teschio Rosso in quell’albo. Amavo alla follia un’altra serie che era stata spesso affiancata al supersoldato a stelle e strisce: si chiamava X-Men e raccontava le imprese di un gruppo di adolescenti impigiamati, alle prese con le modifiche di un corpo che cambia più di quanto sia lecito aspettarsi. Questi ragazzi in balia di ormoni impazziti e corpi mutanti, che andavano a scuola e combattevano il male, erano scomparsi da qualche tempo dalle pagine dell’albo, sostituiti da serie insulse.
Annuso il caldo di Milano e l’odore dei treni, sento la noia che monta in mio padre mentre il treno tarda ad arrivare, sotto gli occhi voraci mi scorrono le pagine a colori di Capitan America. Sfoglio e… BAM! Mi trovo di fronte alla copertina di un albo americano che riporta in testata il nome dei miei amati X-Men. Sotto quel titolo, invece del gruppo di ragazzi vestiti di giallo e blu, ci sono personaggi nuovi dai costumi coloratissimi. Il titolo dell’episodio promette un nuovo inizio e sente di memorie bibliche: “La seconda Genesi”.
In una manciata di pagine, il professor Xavier, l’insegnante del gruppo di studenti in pigiama, attraversa il mondo e raccoglie un gruppo di sconosciuti. È una sorta di deus ex machina che appare in momenti di grande criticità: con il suo assoluto controllo sulla mente degli uomini salva da un destino infausto tanto i nuovi X-Men quanto noi, i lettori. Il gruppo di personaggi è un’accozzaglia eterogenea: c’è un freak tedesco demoniaco coperto di pelo blu e dotato di coda puntuta, una dea keniota che agita una chioma folta e canuta e salva il suo popolo dalla siccità, un dandy nipponico
capace di sviluppare il calore del sol levante, un contadino sovietico al lavoro nei campi della grande madre Russia, un agente speciale canadese con un brutto carattere, uno spirito libero apache, un poliziotto irlandese con i poteri di una strega… Su quelle poche pagine firmate da Len Wein e
Dave Cockrum, in quella sera d’agosto, in una stazione che mi sembrava maestosa, capii il melting pot. Fino ad allora, nel mio immaginario di provincia, gli stranieri si incontravano solo nelle barzellette (un tedesco, un francese e un italiano) e la vita cittadina arrivava in treno con lo sguardo
strafottente di Leone. Ora, leggendo un fumetto di supereroi, scoprivo che non c’era niente di strano in quella miscela di culture e diversità. Dovevano convivere, nonostante le tensioni. E negli episodi successivi ci sarebbe stato tutto: amore, morte, distruzione, dolore, gioia, allegria, fame, rabbia, spensieratezza, invasioni aliene…
Il grande spettacolo della vita.
Scrive e parla, da almeno un quarto di secolo e quasi mai a sproposito, di fumetto e illustrazione . Ha imparato a districarsi nella vita, a colpi di karate, crescendo al Lazzaretto di Senago. Nonostante non viva più al Lazzaretto ha mantenuto il pessimo carattere e frequenta ancora gente poco raccomandabile, tipo Boris, con il quale, dopo una serata di quelle che non ti ricordi come sono cominciate, ha deciso di prendersi cura di (Quasi).