Icaro delle cadute di Lucia Lamacchia e Franco Raggi

Ugo e Michel | Plat du jour |

Due corpi si attraggono con una forza che è direttamente proporzionale al prodotto delle loro masse e inversamente proporzionale al quadrato della loro distanza. Rispolveriamo questa informazione dal cantuccio della memoria in cui era stata posta forzatamente prima di quella interrogazione di fisica che, quasi mezzo secolo fa, non era andata neanche troppo bene.
È sempre stata lì, questa nozione base, benché non abbia mai trovato un’applicazione pratica. Quante volte nella vita può capitare a un uomo di dover dare sfoggio della propria conoscenza della legge di gravitazione universale? Mica, quando cadi dalle scale, pensi alla regola infallibile che obbliga il tuo corpo a infrangersi sugli spigoli di marmo ripetutamente. Gridi, al limite. Poi, forse, se sei sopravvissuto, imprechi dimostrando di esserti dimenticato del tuo ateismo. Si sa, le cadute a volte producono amnesia.
Nella vita di tutti i gironi e nei mestieri impiegatizi che ci siamo scelti, quell’informazione, apparentemente preziosa, non ci è mai servita. Certo, le sue implicazioni ci sono state utili in più occasioni: non abbiamo mai sostato troppo a lungo sotto un albero di mele; con l’incedere dell’età facciamo uso, sempre più spesso e senza vergogna, del corrimano sulle scale; non abbiamo mai cercato di spiccare il volo dalla cima di un grattacielo e, tutte le volte che gli eccessi ci hanno fatto credere di poter volare, come ci ha insegnato Bill Hicks, abbiamo provato a decollare da terra.
Eppure, quell’informazione inutile e inapplicabile è rimasta al suo posto, senza perdere un briciolo di lucentezza.

Quando abbiamo visto, per la prima volta, i disegni di Lucia Lamacchia, abbiamo pensato ai tetramini che ci hanno ossessionato per anni quando il tempo, di solito in ufficio, non passava mai. Quei corpi, disegnati a pennarello con grande precisione anatomica e destrezza tecnica, ci hanno scatenato stupore. Soprattutto l’ultimo, quello apparentemente più semplice: un mozzicone di sigaretta, ancora acceso e carico di cenere, che precipita. Dove va? Verso la fine di un amore, verso la tristezza, verso l’esaurirsi di un legame che fino ad allora pareva indissolubile… Oppure è una liberazione, l’ultima sigaretta che non è mai l’ultima, la caduta che rigenera, l’ultima boccata per darsi coraggio prima di iniziare…
Dove vanno i corpi di Lucia, sospesi nel bianco? Cadono davvero? Arrivano da qualche parte? Oppure come la macchina di Thelma e Louise rimarranno sospesi in eterno, in un’avventura che non può finire, mentre scorrono i titoli di coda? O forse ignorano quella legge che sancisce proporzionalità dirette e inverse e galleggiano?

Poi arriva Franco Raggi e chiarisce il punto. Nello spazio non si vola, si cade. Se un corpo si sposta, con un movimento verticale, deve esserci, per forza una massa che lo attrae. E quella massa non può che essere orizzontale. Un ambiente intonso, forse mai toccato da mano umana, che si configura quale obiettivo di una caduta infinita. Come Alice quando, un po’ per curiosità e un po’ perché è tardi, scivola nel buco del coniglio. Una caduta senza fine, durante la quale interrogarsi sulla vita, l’universo e tutto quanto. In attesa di un TUTUMP che non arriverà.


Le cadute della nostra Lucia Lamacchia e i paesaggi di Franco Raggi sono in mostra nella Galleria Francesco Zanuso, in Corso di Porta Vigentina 26 a Milano, dal 9 settembre al primo di ottobre.
La mostra si chiama Icaro delle cadute e Franco Raggi la presenta così:

Luoghi scabri per una tassonomia sospesa

Quella che cade è una figura di donna vista di schiena, indossa una gonna nera e una camicia bianca stirate dal vento, non vediamo il suo volto, guarda verso il basso, ma forse no.
Non so perché Lucia abbia cominciato a pensare a persone che cadono. Forse incuriosita dalle strane posizioni che un corpo assume quando è irresistibilmente attratto dalla forza di gravità. Posizioni involontarie, inconsuete che suggeriscono resistenza o abbandono, posizioni che contengono una dinamica leggerezza travolta dal peso, come se l’abbraccio della forza di gravità provocasse un senso di reazione, di difesa, ma anche di rinuncia, nella vertigine della caduta.
Non so perché Lucia abbia deciso di dipingere queste figure cadenti con colori leggeri e trasparenti dove il bianco che è assenza di colore diventa lo spazio neutro e senza confini della caduta. Le figure cadenti galleggiano su fondo bianco, cadono in assenza di spazio, forse non cadono e stanno ferme, sospese, sollevate in attesa di un luogo dove cadere.
Dicono, ma nessuno è tornato per confermarlo, che quando si cade, anzi quando si precipita nella verticale diritta e fatale, l’intera nostra vita ci si ripresenta davanti compressa nella successione di infiniti istanti. Dicono, ma non si sa quanto sia vero, che il gomitolo dei ricordi si riavvolga davanti ai nostri occhi o nella nostra mente in un vorticoso istante. Un abbagliante Aleph che contiene e mostra contemporaneamente tutto ciò che abbiamo visto, toccato, ascoltato, amato, odiato e vissuto.
Dicono questo perché forse la caduta, che è abbandono di sé e perdita di controllo, è una condizione nella quale il tempo potrebbe essere sospeso, fermato e ci sia concesso in quell’istante immobile di ripensare a tutto ciò che abbiamo fatto e anche a ciò che non abbiamo fatto e che vorremmo finire.
Tutto ciò forse non c’entra molto con le figure cadenti che affollano l’immaginazione di Lucia che probabilmente ama raccogliere come in un erbario o in una poetica tassonomia queste figure leggere per registrare di ognuna una diversità del cadere.

Cadono casalinghe, pugili, militari, bambine, cinesi, signore eleganti, astronauti, cantanti rock, cavalli, calciatrici, impiegati, orsi… ma dove cadono?

Come Icaro sono saliti sollevati dall’euforia del volo che all’improvviso li ha abbandonati per riportarli da dove sono venuti? Ho voluto allora disegnare dei luoghi immaginari per accogliere e concludere le loro solitarie cadute. Li ho immaginati inospitali ma non ostili, rarefatti ma non privi di segni di salvezza che attutissero se non altro il rumore della loro caduta. Li ho immaginati popolati di attrezzature arcaiche dove secondo un arido calcolo delle probabilità la caduta potrebbe non essere fatale. In un caso ho immaginato che la caduta si concluda in un luogo simile a quello dal quale Icaro è partito: un labirinto insensato di muri e stanze senza soffitto e con poche porte.

Franco Raggi
Febbraio 2020

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