I pezzi sono di chi li vende

Francesco Pelosi | Strani anelli |

Uno spettro si aggira per questo strano anello. Il fantasma di un elefante in una stanza virtuale. È mai possibile non considerarlo, parlando di Berlino in una rivista QUASI interamente dedicata al fumetto? Probabilmente sì, ma occorrerebbe essere molto scriteriati o molto snob. Possiamo riuscirci.

«A chi ci chiedeva che diavolo succedesse là, in Prussia, non si sapeva cosa rispondere, se non raccontare banali emozioncine adolescenziali raccolte nel passeggiare sotto la neve, costeggiando il muro nella zona di Brandeburger Tor o nell’essere stati sorpresi da una tempesta di ghiaccio nel bel mezzo di Tiergarten, soli e, per di più, senza giacca a vento.»
Così Pier Vittorio Tondelli nella raccolta di articoli intitolata Un weekend postmoderno descriveva l’estraneità quasi imbarazzata che Berlino provocava nel pieno degli anni Ottanta a chi come lui – e come me – era nato nella tundra provinciale dell’Italia del nord. A chi come lui l’aveva raggiunta per vedere con i propri occhi le molte culture mischiate, il fermento artistico e quel Muro così alto e lontano che ci divideva, noi pulcini – anzi polli, Polli d’allevamento, come cantava Gaber – a razzolare nel cortile americano, da quell’altra civiltà incomprensibile, ancor più estranea di Berlino stessa, nella parte Est della città.
Era il 1985 quando Vicky la visitò, e ce lo possiamo immaginare come lui stesso si descrisse in Autobhan, l’ultimo racconto del suo splendido e seminale Altri libertini, un poco sbronzo a bordo della sua cinquecento, inforcare l’autobrennero di Carpi e continuare in linea retta fino alla fine. 

«(…) se ti metti lissù e hai soldi e tempo in una giornata intera e anche meno esci sul Mare del Nord, diciamo Amsterdam, tutto senza fare una curva, entri a Carpi ed esci lassù», scriveva.
In realtà, a guardare bene sulla cartina, per andare ad Amsterdam qualche curva la devi fare. Per Berlino invece sembra proprio tutta dritta. Come se l’Emilia fosse segretamente attratta e chiamata da quella città che, scrive ancora Tondelli, «giocoforza è tagliata fuori dal resto dell’Occidente, un’isola piantata nel cuore della DDR, circondata dal 1961 dal famoso muro, ancora tragica barriera fra un mondo che si finge libero e un altro che si finge felice». Un’ambivalenza che racconta perfettamente la situazione politica e sociale di allora e che certamente ha influito su chi è nato lassù, venendo modellato a forza da quella doppiezza.

Non si può non pensare allora a Wim Wenders, figlio della Germania dell’Ovest, emigrato negli USA dove troverà fortuna per il suo cinema, e poi tornato in patria per riappropriarsi di quella lingua e di quella cultura abbandonate. Nel 1987, due anni prima che il muro venga abbattuto, Wenders girerà Il cielo sopra Berlino (Der Himmel über Berlin), film recitato in tedesco, vero e proprio canto d’amore a quella città martoriata e ai suoi abitanti, che riceverà moltissimi riconoscimenti. Ma quegli angeli mesti, severi e silenziosi, avvolti nei loro cappottoni scuri che osservano le vite di tutti dal tetto dei palazzi berlinesi, fanno più pensare a guardiani e spie, che a protettori. A dirla tutta fanno proprio pensare alla Stasi, il Ministerium für Staatssicherheit (Ministero per la Sicurezza di Stato), che per l’intera durata della Repubblica Democratica Tedesca ha terrorizzato i suoi abitanti, spiando, controllando, perquisendo, torturando e uccidendo chiunque venisse sospettato di attività “dissidenti”.

Sag mir, wo die blumen sind?, «dove sono finiti tutti i fiori?», è il titolo della canzone-stranoanello che Pete Seeger ha composto nel 1956 in lingua inglese con il titolo Where have all the flowers gone?, come racconta Riccardo Venturi nel suo indispensabile sito “Canzoni contro la guerra” (antiwarsongs.org), dove vengono riportate anche le varie traduzioni che il brano ha subito nel tempo. Ispirata dal romanzo Placido Don di Michajl Šolochov, la canzone gira su sé stessa, chiedendosi dove sono finiti tutti i fiori, li han presi tutti le ragazze, che son state prese tutte dai ragazzi, che li ha presi tutti la guerra, che son finiti tutti nelle tombe, che son diventati tutti fiori.

Sag mir, wo die blumen sind?, cantava anche Marlene Dietrich, nella traduzione di Max Colpet, nel 1962. E anche Marlene Becker cantava la stessa canzone, mentre il dolente Friederich, tormentato e glaciale agente della Stasi, la ascoltava, innamorato di quell’emulatrice della Dietrich che pareva rivolgersi perfettamente al suo dolore. Entrambi, sembra già di intuirlo, non avranno un futuro compiacente, come ci raccontano i loro creatori, Alessandro Bilotta e Matteo Mosca, nel fumetto che li riguarda, Friederichstrasse, pubblicato da Bonelli nella collana “Le Storie” nel 2016. Il racconto, di una cruda finezza, è ambientato a Berlino durante gli ultimi anni della DDR, così come il bellissimo film del 2006 al quale “Friederchstrasse” sembra dovere molto, Le vite degli altri (Das Leben der Anderen), di Florian Henckel Von Donnesmark. 

Ma anche altri fiori carezzano Berlino, i fiori metallici di una musica ipnotica, paranoide e sensuale, come un mantello di tenebra che avvolge la mente di chi la ascolta. Blume, fiore, è un pezzo -chiamarlo canzone sembra azzardato, riduttivo- degli Einstürzende Neubauten, gruppo berlinese dell’Ovest che spazia dalle avanguardie novecentesche all’industrial, in un amalgama di suoni, parole e gesti che ricorda molto da vicino il teatro sperimentale. Il frontman è Blixa Bargeld, lo stesso che sarà anche l’anima dei primi Bad Seeds di Nick Cave, e il loro nome, in una libera traduzione suggerita su Wikipedia, può significare “nuovi edifici che crollano”. 
Chissà cosa devono aver pensato quando, a poco meno di dieci anni dalla loro formazione, il Muro che li divideva dalla parte orientale della città è stato fatto crollare, quasi in risposta alla loro esistenza. Blixa, in effetti, sembra proprio un Arcano dei Tarocchi, a metà fra Il Matto, Il Bagatto e Il Diavolo. Non c’è da stupirsi, dunque. Di certo però sappiamo cosa hanno pensato Giovanni Lindo Ferretti e Massimo Zamboni di fronte a quell’evento storico: basta.

Nel 1989 il gruppo di punk filosovietico CCCP- Fedeli alla linea si sciolse, pubblicando un lungo comunicato nelle cui prime righe si legge: «brandelli di muro al supermercato sanciscono di fatto lo smantellamento di un mondo; il mondo si rompe e i pezzi sono di chi li vende».
Ferretti e Zamboni, entrambi di Reggio Emilia, si conobbero a Berlino nell’autunno del 1981. La storia del loro incontro, è ormai leggenda della musica italiana. Una notte, nella discoteca Superfly di Adenaeurplatz, mentre Zamboni sta ballando a braccia aperte in mezzo alla pista, ipnotizzato da Alabama song dei Doors (o meglio, di Brecht e Weill), viene avvicinato da un’amica di Reggio che lo riconosce e che gli vuole assolutamente presentare un tipo, anche lui di Reggio. Ovviamente sta parlando di Ferretti, pallido e febbricitante, pronto per partire per la Tunisia il giorno dopo. Non partirà mai. Dice Zamboni a proposito del loro incontro: «un sistema a incastro. Formidabile l’ego di coppia, noi. Essere speculari; è tutto quello che ci serve per superare il Muro.»
Poco tempo dopo suggelleranno quell’incredibile unione descrivendola in Emilia paranoica: «Un freddo più pungente/ accordi secchi e tesi/ segnalano il tuo ingresso/ nella mia memoria».

E anche Ferretti, come Tondelli, è convinto che ci sia qualcosa di particolare nell’autostrada che dalla pianura padana porta fino alla città attraversata dallo Spree. «Tra Carpi e Berlino c’è un legame speciale, perché a Carpi comincia l’autostrada del Brennero: perciò noi consideravamo Carpi come la periferia estrema di Berlino», dirà.
E ancora, in un’intervista raccolta in Un weekend postmoderno: «A Berlino, la dolcezza del vivere esce a un livello puro: la violenza più grande, la dolcezza più estrema. I punk e i turchi. Kreuzberg, quartiere abitato prevalentemente da turchi, è il cuore della nuova Europa». Sarà proprio a Kreuzberg, su un muro della metropolitana, che i CCCP vedranno quella scritta, “Punk Islam”, che li porterà a comporre l’omonima canzone dove Ferretti, sgolato e savonaroliano come suo solito, urla: «Allah è grande, Gheddafi è il suo profeta!»
Quello slogan sarà poi argomento di una conversazione di pochi anni fa, durante una trasmissione televisiva, dove il cantante chiederà scusa, pentendosi di quell’elefante blasfemo nella sua cattolica e reazionaria stanza. D’altra parte, i pezzi sono di chi li vende.  

Questo strano anello si compone di:

  • Uno spettro.
  • Pier Vittorio Tondelli, Un weekend postmoderno, Bompiani, 1990.
  • Polli d’allevamento di Giorgio Gaber, nello spettacolo omonimo della stagione teatrale 1978/79 con gli arrangiamenti di Franco Battiato e Giusto Pio.
  • Pier Vittorio Tondelli, Autobhan in Altri libertini, Feltrinelli, 1980.
  • Il cielo sopra Berlino, regia di Wim Wenders, 1987.
  • Sag mir, wo die blumen sind?, cantata da Marlene Dietrich nel 1962, traduzione di  Max Colpet del brano Where have all the flowers gone? scritto da Pete Seeger nel 1956.
  • Alessandro Bilotta e Matteo Mosca, Friederichstrasse, in Le Storie 16, Sergio Bonelli Editore, 2016.
  • Le vite degli altri, regia di Florian Henckel Von Donnesmark, 2006.
  • Blume di Einstürzende Neubauten con Anita Lane, nell’album Tabula rasa, 1993.
  • Emilia paranoica e Punk Islam di CCCP-Fedeli alla linea, nell’album raccolta, Compagni, cittadini, fratelli, partigiani, 1985.

Per scriverlo si è osservata la più totale astinenza alcolica, guardati a vista da noi stessi.
Neanche a dirlo però, appena ci si voltava dall’altra parte, corpose quantità di Lager beer venivano ingollate di nascosto. Fredde, schiumose e piene di bolle. Quasi sovietiche. Mica quelle IPA tiepide da fighetti imperialisti.

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