Il 12 agosto 1945, sei giorni dopo la devastazione di Hiroshima e tre da quella di Nagasaki, James B. Reston, che quell’anno vincerà il suo primo premio Pulitzer, rese esplicita sul “New York Times” la paura che aveva attanagliato molti cittadini degli Stati Uniti: «In quel terribile lampo, lontano diecimila miglia, gli uomini non solo hanno visto il destino del Giappone, ma intravisto il futuro dell’America». Era insomma parso subito chiaro a tutti che qualunque guerra futura non avrebbe potuto produrre altro che quell’orrore e che dunque da quell’orrore ci si sarebbe dovuti proteggere.
Una delle prime immagini degli effetti di un attacco nucleare a New York City fu quella pubblicata il 7 agosto su “PM”, quotidiano della sera di quella città. Se la bomba fosse esplosa sopra il municipio, le conseguenze si sarebbero propagate dal “punto di impatto” fin oltre Central Park, dall’area in cui la devastazione sarebbe stata totale a quella, ancor più vasta, in cui si sarebbe rischiata quantomeno una “commozione cerebrale”.
Il 19 novembre dello stesso anno, “Life” pubblicò un articolo, come al solito abbondantemente illustrato, dal titolo “La guerra di 36 ore”. Si basava su un rapporto che il generale Henry “Hap” Arnold, capo di stato maggiore delle forze armate statunitensi e principale sostenitore delle campagne di bombardamento sulla Germania e il Giappone, aveva consegnato solo una settimana prima al Segretario della Guerra. «Nessuno è immune dalle devastazioni della guerra» era il messaggio principale, perché «le difficoltà in una difesa attiva contro futuri proiettili atomici sono insormontabili» e a seguito di una attacco atomico «gli Stati Uniti subiranno danni terrificanti», «tutte le città con più di 50.000 abitanti verranno rase al suolo» e la Fifth Avenue di New York sarà ridotta a un «viottolo in mezzo ai detriti».
Radio, giornali e televisione non facevano altro che mostrare l’America, New York soprattutto (la parola “Manhattan” ricorda qualcosa?), sotto attacco nucleare. Bisognava trovare le contromisure, quelle che solo la scienza avrebbe potuto trovare. Ma ci si poteva ancora fidare degli scienziati?
Del dr. Novel, per esempio, lo capivi subito che no, non ti potevi fidare, la smorfia beffarda che aveva stampata sul viso non lo abbandonava mai. Il canuto infingardo, poi, sapeva bene come abbagliare gli allocchi: «Guardate come luccica il mio metallo antiatomico, vi fornirà anche la protezione completa dalla terribile bomba atomica», aveva gracchiato ai rappresentanti di quelle forze armate che non si erano fatte scrupolo di farne l’uso che ben conosciamo. Non aveva però fatto i conti con la figlia della regina delle Amazzoni, «bella come Afrodite, saggia come Atena, più veloce di Mercurio e più forte di Ercole». «Ma dottore», aveva infatti obiettato Diana, «la bomba atomica trasforma qualsiasi metallo in gas!». Si era sentita rispondere che una donna («naturalmente») certe cose non le poteva capire.
Una donna? «Naturalmente»? Steve, lo hai sentito? Ma cosa dice? «Una donna ha contribuito a inventare la bomba atomica! I calcoli matematici della dottoressa Lise Meitner hanno mostrato come scindere gli atomi di Uranio.» «Abbassa la voce, Diana», aveva però consigliato l’amico, «Novel metterà alla prova il suo metallo con una bomba atomica.» Il test era ovviamente farlocco e a Diana, nelle vesti di Wonder Woman, toccherà l’arduo compito di svelare la cospirazione, non prima però di finire per l’ennesima volta legata a un palo e poi essere rimessa in gioco dal decisivo intervento di Etta Candy.
La storia apparve nell’agosto del 1946 sul numero 56 di “Sensation Comics” quando Lise Meitner, negli Stati Uniti, era già una celebrità. Il 9 febbraio dello stesso anno era stata infatti l’ospite d’onore di una cena al Mayflower Hotel di Washington, il “secondo miglior indirizzo della città”, celebrata come “donna dell’anno” dalle giornaliste del Women’s National Press Club. Lì si era accomodata accanto al Presidente Truman la cui voce aveva già ascoltato un anno prima, nel momento dell’annuncio della catastrofe. «La donna che ha aiutato a sviluppare la bomba» avevano titolato i giornali in quei giorni drammatici ma la Meitner in un’intervista telefonica rilasciata il 7 agosto all’Associated Press aveva subito voluto puntualizzare che Lei era una “scienziata pura” e che il suo unico interesse riguardo all’atomo era «di tipo scientifico e teorico» e che mai avrebbe immaginato che il suo lavoro pionieristico degli anni ‘30 avrebbe portato allo sviluppo di una delle «forze esplosive più distruttive mai scoperte». L’”Herald Tribune” e il “New York Sun” non l’avevano presa benissimo, accusandola velatamente di reticenza e insinuando che non aveva avuto il coraggio di prendersi le responsabilità che certamente le spettavano. Cosa nascondeva questa minuta donna austriaca? Non aveva forse lavorato in Germania fino al 1938? Quali segreti si era portata dietro fuggendo via da qual Paese?
Lise Meitner era arrivata a Berlino da Vienna nel 1907 per occuparsi di radioattività e seguire le lezioni di Planck sulla teoria quantistica. Einstein aveva formulato da appena due anni l’ipotesi che la luce è composta di “quanti di energia” ma nessuno li aveva ancora chiamati “fotoni” (bisognerà aspettare la fine degli anni ‘20). L’atomo di Bohr non era nei sogni di Bohr, Schrödinger non aveva ancora sviluppato i suoi storici problemi coi felini e Heisenberg quelli coi colleghi. Lise a Berlino aveva fatto subito conoscenza di Otto Hahn, un giovane chimico col quale la collaborazione sarà lunga e proficua e che porterà, lui soltanto, al Nobel (malgrado le proteste di Bohr). Nel 1926 ottenne la cattedra universitaria in fisica, prima donna di sempre in Germania, ma le verrà sottratta nel 1933, l’anno della prima legge razzista e antisemita del Terzo Reich. La “Legge per la Restaurazione del Servizio Civile Professionale” prevedeva infatti l’esclusione dalle funzioni e dalle cariche pubbliche per i funzionari e gli impiegati “non ariani” e “politicamente inaffidabili”. Lise Meitner era di origine ebraica (ma di fede protestante) e donna e per le donne l’unico ruolo appropriato era quello di partorienti della razza. Nel 1938 la Germania invase l’Austria e Lise finalmente scappò, prima in Olanda e poi in Svezia, dove si stabilirà fino al 1960.
La sua fuga aveva preceduto di poco la scoperta della divisione del nucleo di Uranio, avvenuta per merito di Hahn e Strassman a Berlino, ma di cui lei stessa avrebbe immediatamente fornito la prima descrizione fisica in un celebre articolo pubblicato su “Nature” firmato col nipote Otto Frisch («i calcoli matematici» che cita Diana nel fumetto del 1946 sono proprio questi). Il termine “fissione” venne scelto proprio in quei giorni a Copenhagen – merito di Otto e di un biologo, William Arnold – in analogia con la “fissione binaria”, il processo con cui una cellula madre si divide in due cellule figlie, una modalità di riproduzione e non di sterminio.
Lise Meitner non aveva insomma nulla da nascondere e anche oltreoceano non ci volle molto a capirlo, soprattutto grazie al sostegno incondizionato di Niels Bohr che con gli americani aveva in corso più di un “affare”. Eleanor Roosvelt il 9 agosto 1945, il giorno in cui a Nagasaki venne sganciata la seconda bomba, l’aveva intervistata per la NBC paragonandola a Madame Curie. Lise Meitner ne aveva così approfittato per promuovere l’utilizzo pacifico dell’energia nucleare, sottolineando la responsabilità delle donne nel cercare di impedire, per quanto possibile, un’altra guerra.
Nel numero 21 di “Wonder Woman”, pubblicato nel gennaio del 1947, la nostra supereroina, in una storia scritta da Joye Hummell, scopre che la detonazione di una bomba atomica ha creato un microuniverso popolato da protoni-donna e neutroni-robot e governato da una non proprio amichevole Queen Atomia. Dopo varie peripezie e i soliti combattimenti, Diana comprenderà che l’unico modo di neutralizzare Atomia sarà quello di insegnarle cosa sono «l’amore e la bellezza», solo in questo modo la sua sete di conquista potrà essere placata e i suoi poteri usati per il bene dell’umanità. La storia si conclude così, propagandando buoni sentimenti e dispensando autoassoluzioni. Abbiamo risvegliato il mostro, ci è sfuggito di mano ma gli abbiamo insegnato l’educazione.
La corsa agli armamenti nucleari non era neanche cominciata.