Zusammenhang

Boris Battaglia | Una pietra sopra |

Song of the open road
«. . . From this hour, freedom!
From this hour I ordain myself loos’d of limits and imaginary lines,
Going where I list, my own master, total and absolute,
Listening to others, and considering well what they say,
Pausing, searching, receiving, contemplating,
Gently, but with undeniable will, divesting myself of the holds that would hold me . . .»

Walt Whitman

Berlino. Wedding. Tardo pomeriggio di un giorno di prima metà maggio. Seduto a un tavolino del Wine&Geflugel, all’incrocio tra Malplaquetstrasse e Nazarethkirchstrasse, Boris (che poi sarei io) beve una Berliner Kindl alla spina e fuma la pipa mentre studia una carta stradale. Leonida (che poi sarebbe mio figlio, quello grande) beve un succo di pesca e sfoglia distrattamente la  Lonely Planet dedicata alla Germania.
Poi mi dice.
«Dì papà… io non credo che dovremmo andare ad Amsterdam… Sai, adesso non penso proprio che mi interessi andare là tra i tuoi amici anarchici. Preferisco se facciamo la strada delle fiabe… quella che avevano fatto i fratelli Grimm quando poi hanno scritto il loro libro…»
Quasi mi cade la pipa di bocca. «E questa dove l’hai pescata?», gli chiedo. «L’ho letta qui sulla tua guida. Ho visto che Hameln è vicinissima a Hannover… allora mi dico, visto che a Hannover dobbiamo comunque andarci… non possiamo poi scendere verso Hameln e cominciare da lì a scendere tutta la strada delle fiabe? Vorrei proprio vedere com’è e se esiste davvero questa città…».
«Certo che esiste. E’ sulle carte no?!», glielo faccio vedere sulla cartina dove sta Hameln. «Poi», continuo, «com’è lo sai, no? Quante volte l’hai letta la favola del pifferaio magico?!… scusa.» «No! Se è segnata sulle carte non vuole dire niente… dobbiamo esserne sicuri… dobbiamo andare a vedere.»

Già. Logica ferrea quella dell’andare a vedere. Mia da sempre. Sa dove colpirmi, mio figlio, quando vuole qualcosa. Andare a vedere. Era, se non sbaglio (e non sbaglio), il grande geografo anarchico Elisée Reclus che pensava che la conoscenza non si costruisce sulle carte ma attraverso lo spostamento. Solo se vai a vedere puoi conoscere qualcosa. Il resto, quello fatto sulle carte, al limite, è imparare.
In un bellissimo libro del 1872, Roughing it (lo trovi in italiano tradotto con il titolo di In cerca di guai), Mark Twain usa, probabilmente per primo – quasi avesse letto Reclus – in lingua inglese, il termine vagabonding. Non riesco a tradurlo con “vagabondare”. C’è dentro molto di più della banale saggezza di stampo orientale, oggi tanto di moda, che ci fa sapere che lo scopo di chi viaggia non è arrivare. Arrivare interessa ai turisti da weekend, sia pure lungo. Come invece ai viaggi(au)tori da bestseller – sì, penso a Chatwin – interessa solo ritornare. Poi ci sono anche i tipi come Guy Delisle, ai quali interessa solo andarsene. Arrivare non interessa certo ai tipi come Mark Twain.

Ecco… Vagabonding lo tradurrei con “andare a vedere senza per forza sapere cosa”. Anche solo a verificare se quella cazzo di città, cui gli italiani aggiungono per pronunciarla una i, esiste davvero. Viaggiare è l’unico modo per ampliare il paradigma cui si conforma la nostra vita. Almeno appena abbiamo qualche giorno libero, spezzare il mortifero abbraccio delle nostre abitudini e delle nostre convinzioni, di quel bagaglio di stronzate che riteniamo necessarie a salvarci la vita e che invece, per undici mesi all’anno, ce la svuotano quotidianamente di senso. Quando siamo in viaggio persino ordinare un pranzo è gravido di sorprendenti possibilità. Nella possibilità di cui quei pochi giorni all’anno che dedichiamo al viaggio sono ricchi, c’è l’essenza, il fertilizzante, di quella sorpresa mista a meraviglia che ci coglie davanti alla irriducibilità del reale.
Uno dei motivi per cui non sopporto Delisle è la sua assoluta indifferenza a questa possibilità. Anzi mi sembra che sia sempre alla disperata ricerca di ricostruire, ovunque si trovi, il paradigma della sua quotidianità borghese.
In un altro libro che ti consiglio, dedicato alla storia dei modelli del mondo, Franco Farinelli ci descrive lo scontro tra Ulisse e Polifemo come lo scontro tra chi si muove e chi sta fermo. Questo scontro è «l’opposizione originaria, il cui esito, favorevole alla mobilità, ha fatto di quest’ultima la condizione fondamentale per tutto quello che chiamiamo cultura» (Geografia. Un’introduzione ai modelli del mondo, Einaudi, 2003, p.94).

Se abitassimo un linguaggio, come sembrano credere quelli che venerano il verbo incarnato, potremmo anche vivere e conoscere senza muoverci. Ma noi abitiamo il mondo, ed è impossibile viverci e conoscerlo senza muoversi. Dobbiamo muoverci e non possiamo eludere ciò di cui ti dicevo prima: il problema delle mappe e della “retorica cartografica”.

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(Quasi)