Nel 1984 William Gibson pubblica Neuromancer, il primo capitolo della Trilogia dello Sprawl. In Italia esce nel 1986 grazie all’Editrice Nord; Cosmo Serie oro 80, 260 pagine. Io me lo ritrovo in mano un anno dopo, forse, due, in casa di un antico fidanzato. Amo da sempre la fantascienza, ma è da molto tempo che non ricevo una suggestione potente. Èsi meglio la televisione, o il cinema. Invece: «Il cielo sopra il porto aveva il colore della televisione sintonizzata su un canale morto.» L’incipit mi sale come un rush da zuccheri raffinati, cos’è? Devo leggerlo tutto subito. E siamo io e Case e Molly per un paio di sere e notti. Case, il “cowboy della consolle”, l’hacker dal sistema nervoso danneggiato che non può più collegarsi alla “Matrice”, la rete informatica globale, e Molly, la “samurai della strada”, la combattente dal fisico artificialmente manipolato. Di lei mi restano le lenti scure che le rivestono le orbite, creando un viso che allora mi era difficile interpretare come interamente umano, per l’impossibilità di vederne gli occhi, mentre oggi mi sembrerebbe assolutamente leggibile. Case viene reclutato mentre èa Chiba in Giappone, alla ricerca di una cura, e la missione è poco chiara, ma riguarda un’identità digitalizzata, un’intelligenza artificiale che cerca di affrancarsi dai controlli di Turing che le impediscono di evolversi. E c’è lo Sprawl, l”immensa area metropolitana che si estende lungo la East Coast da Boston ad Atalanta. Ci sono le grandi Corporation, allora, in piena bolla economica nipponica, immaginate come Zaibatsu. Ma soprattutto c’è il Cyberspazio, la Matrice:
«Cyberspazio: un’allucinazione vissuta consensualmente ogni giorno da miliardi di operatori legali, in ogni nazione […] Una rappresentazione grafica di dati ricavati dai banchi di ogni computer del sistema umano. Impensabile complessità. Linee di luce allineate nel non-spazio della mente, ammassi e costellazioni di dati. Come le luci di una città, che si allontanano…»
La Matrice, la digitalizzazione di qualsiasi cosa, arrivava in forma di racconto epico proprio mentre i personal computer entravano anche nelle vite di chi non praticava i videogames. Il 6 febbraio 1987 Steve Wozniak lascia la Apple; un mese e dieci giorni dopo io prendo servizio all’Aler, allora Istituto Autonomo Case Popolari. È appena arrivato il primo pc, che troneggia al centro dell’atrio, se ne parla con soggezione e meraviglia, con un po’ di paura, perché si usavano ancora le macchine da scrivere, si correggeva con il bianchetto. Ma da adesso, a turno si ha la possibilità di accedere a quell’installazione con lo schermo nero e strisce di caratteri bianchi luminosi, una versione rovesciata e perturbante dello sfondo a pagina bianca di oggi.
Ci è voluto moltissimo perché i dipendenti più vecchi comprendessero, per esempio, il concetto di file: che è un insieme di dati, e traduce musica, matematica, parole, immagini, qualsiasi cosa. Non più il nome di un oggetto fisico, ma quello di un oggetto immateriale che, come Finanza e Mercati, nei successivi trenta, quarant’anni sarebbe diventata di uso comune, reificata almeno nello spazio della comprensione. Ho perso un file, cazzo. I Mercati hanno deciso.
Faccio parte di una generazione che ha scollinato. Ancora per me capire la differenza di funzioni di piattaforme, motori di ricerca, sistemi operativi, non è istintivo. Spiegamelo bene, dico spesso ad amici informatici. Tuttavia, quando nel 1999 mi siedo in sala a vedere Matrix, dopo venti minuti dico, «Oh no, certo, sono in una matrice». E la famosa scena del risveglio nel cocoon, con i cavi infilati nella nuca, mi ha affascinato per il realismo, ma non era un colpo di scena: odio indovinare le sceneggiature. Ma per me e il gruppo di amici e amiche che si erano passati Neuromante con l’avidità della scoperta della cosa figa, quella di cui parlare al bar di notte per ore e ore, era scontato. Il mondo che vedi è una simulazione. Ribaltamento della strategia di Neuromante, sei nella Matrice, che ti possiede, non ne vai all’assalto. Però esco dal cinema felice, la realtà è modificabile, non solo da oscuri poteri, ma anche dalla nostra mente. Trinity, congelata come un Nureyev onirico-bionico a metà di un balzo impossibile, mentre annienta i suoi nemici, anticipa per me ogni possibile Kill Bill, ogni eroina combattente.
E Matrix fornisce, trent’anni dopo, materiale narrativo ai Redpill, quella frangia di maschi frustrati che si rifà alla famosa scena in cui Morpheus, uno dei leader della Resistenza, offre a Neo le due pillole, la rossa e la blu, in una notte di tempesta. La Matrice è ovunque, è la realtà che ti è stata messa davanti agli occhi perché tu non veda la verità: che sei uno schiavo.
Se scegli la pillola rossa, la menzogna si disintegrerà, e avrai a che fare con la verità.
E incredibilmente un gruppo di maschi si appropria della metafora per definirsi “risvegliato” a una verità anacronistica: donne e uomini sono diversi, hanno ruoli precisi, e i diritti delle donne sono lesioni di un diritto primigenio dei maschi.
Fatevi un giro sulle pagine dei Redpill, in italiano redpillati, o degli Incel, Celibi involontari. Scoprirete l’emozionante mondo in cui ogni affermazione di libertà della sfera sessuale, dei diritti, del desiderio si storpia in una lagna per cui le donne sono cattive, o stupide, o avide, ma soprattutto non obbedienti,
Poi, bomba, il 4 settembre di quest’anno Lilly Wachowski, che insieme alla sorella Lana ha diretto la trilogia di Matrix e recentemente ci ha regalato la bellissima serie Sens8, ammette che le teorie che circolavano in rete, quelle di un sottotesto sulla transessualità nella trilogia, sono tutte vere. Lei e Lana, allora entrambi uomini all’anagrafe, volevano raccontare proprio la trappola di un corpo sbagliato, cioè di una realtà falsa. Ok Redpill, ah ah ah!
E da allora, anche grazie a loro due, come è cambiata l’immagine del corpo. Innesti meccanici, variazioni genetiche, ma anche semplicemente la varietà delle forme fisiche delle persone, della loro età e dimensione, sono entrate nella rappresentazione della serialità televisiva, quella che secondo me più massicciamente influenza l’immaginario collettivo. La Queerness di cui parla Lilly nell’intervista a Netflix è dilagata, in silenzio, e io esulto.
La transizione, non solo da A a B, da maschio a femmina, ma da A a G a Z per tornare ad A, si rivela in mille trame, in cui anche i confini tra la realtà condivisa e i fatti, e gli stati alternati di coscienza, sono diventati pezzi del Lego con cui giochiamo tutti, attivamente o passivamente, guardano uno schermo che per molti è diventato quello di un computer, mentre la televisione è scomparsa.
La TV non ha più i canali, ha le piattaforme. Il canale morto dell’incipit di Neuromante si può al massimo trovare facendo zapping sul digitale terrestre, ma è nero perché le striature sullo schermo se ne sono andate insieme al tubo catodico, e questa cosa a me ormai capita solo a casa dei miei genitori, quando incasinano la programmazione del telecomando.
Eppure la poesia di quelle prime righe è innegabile. Blade Runner, nel 1982, mi aveva fatto parzialmente lo stesso effetto. Un mondo piovoso, creature perfette condannate a una morte precoce, una ribellione, un cacciatore. Il monologo di Rutger Hauer, Roy Batty, che mi convinceva del fatto che non sarebbe rimasto altro, di qualunque cosa magnifica, che «lacrime della pioggia. È tempo di morire.». Restituito alla sua dignità originale solo da Final Cut del 2007, già nel 1982, anche con quel finale melenso e la voce fuori campo, Blade Runner ci aveva consegnato un nuovo immaginario. I mutamenti climatici che riducono il mondo a un pantano piovoso, un immenso suk su cui si ergono i giganteschi edifici della ricchezza, delle Corporation. I mondi esterni come piano B – più volte Elon Musk, che sta investendo miliardi nel progetto Space X, ha parlato di Marte come “piano B” della Terra. Il piano A è già stato censurato, evidentemente. E i corpi come contenitori. I corpi cambiano, slittano, si traducono.
È bello pensare alla fluidità. È pauroso pensare alla frattura che si allarga tra mondo sensibile, bisogni, desideri, e soddisfazione, sopravvivenza. Altro che non dualità di mente-corpo, ciao Buddha. Il corpo è un vettore, una sleeve come hanno deciso di chiamarlo recenti produzioni di fantascienza. È la struttura del pensiero che potrà, forse, essere salvata, in una versione ipotizzabile dell’aldilà. Black Mirror, la serie che ha insinuato ogni dubbio possibile sulla relazione tra tecnologia e vita umana, conta un’unica puntata con un lieto fine, ed è proprio di questo che parla. Le nostre reti neurali assunte nel cielo di un enorme serbatoio di dati, in cui vivere per sempre, o almeno finché ci sarà una fonte di energia.
Ogni corpo può essere un canale morto. Se non funzioni, cambia canale. Neuromante è stato il primo romanzo a fare man bassa di tutti i maggiori premi letterari dedicati alla science-fiction: Premio Hugo, Nebula e Philip K. Dick Award.
Nel ’74, credo, il premio Hugo per il miglior racconto l’ha vinto The Girl Who Was Plugged In di Alice Bradley Sheldon, che scriveva, guarda caso, con uno pseudonimo maschile: James Tiptree jr.
La ragazza collegata è ambientato in un mondo in cui le grandi Corporation governano, di fatto, qualsiasi cosa ma la pubblicità è stata abolita. I prodotti vengono reclamizzati attraverso l’utilizzo che ne fanno le star. Ma non sarebbe più comodo, più controllabile usare corpi artificiali controllati a distanza da esseri umani “collegati”? La protagonista del racconto viene reclutata dopo un tentativo di suicidio. È malata, grassa, “brutta”. Il suo avatar è bellissimo. Lei si rivela la migliore in assoluto, e comincia a vivere collegata 24 ore al giorno, non si staccherebbe mai, deve essere convinta a nuotare un po’, la notte, per evitare le piaghe da decubito. Il distacco, l’odio palpabile per il proprio corpo fisico e sbagliato ne fanno un racconto formidabile.
Cambiare corpo era orrore, dolore, segretezza. E dietro al corpo nuovo restavi tu, il mostro pallido che nuota la notte nella piscina deserta.
Forse i redpill rimpiangono questo scenario.
Cambiare, trasformarsi, restare meno solidi possibile, anche solo per sopravvivere.
Una delle trasformazioni avvenute per Neuromantre è quella della traduzione. Il secondo e terzo volume della Trilogia dello Sprawl hanno sofferto, oltre che di uno sfocarsi della vicenda, di due traduzioni italiane imperdonabili: Count Zero, (1986) era diventato Giù nel ciberspazio – ma giù dove? – e Mona Lisa Overdrive (1988) era stata banalizza in Monna Lisa Cyberpunk, così, per far capire gli ingredienti anche all’acquirente frettoloso da stazione. L’ICE, Intrusion Countermeasures Electronics (Contromisure elettroniche anti-intrusione) diventa il Ghiaccio, ed è buffo pensare che ora abbiamo i Firewall, i muri di Fuoco.
Così anche Mondadori ha rinnovato la traduzione, che inizialmente cominciava così:
«Il cielo sopra il porto aveva il colore della televisione sintonizzata su un canale morto.
– Non è come al solito. – Case lo sentì dire da qualcuno, mentre si faceva largo tra la calca, a gomitate, per infilarsi nella porta dello Chat. – È come se all’improvviso il mio corpo avesse un bisogno disperato di droga. – Era la voce dello Sprawl, una delle espressioni più tipiche. Il Chatsubo era un bar per espatriati di professione: potevate andarci per un’intera settimana senza mai sentire due sole parole in giapponese.»
Mentre dal 2017 suona, in modo assai più convincente, così:
«Il cielo sopra il porto era del colore di uno schermo televisivo sintonizzato su un canale morto.
“Non è che mi faccio” disse qualcuno mentre Case si apriva un varco a spintoni tra la calca per infilarsi dentro il Chat. “Solo che all’improvviso il mio corpo ha una drastica carenza di droga.” Era un accento da Sprawl, in una delle espressioni più tipiche dello Sprawl. Il Chatsubo era un bar per espatriati di professione: potevi andarci a bere per una settimana di seguito senza mai sentire due sole parole in giapponese.»
(Entrambe le traduzioni sono di Giampaolo Cossato e Sandro Sandrelli)
Questo strano anello è composto da:
- William Gibson, Neuromante, Mondadori, 2017
- Matrix di Lana e Lilly Wachowski, 1999
- Sens8, stagione 1 e 2 di Lana e Lilly Wachowsky, 2016 – 2017
- Blade Runner di Ridley Scott, 1982
- La ragazza collegata di Alice Bradley Sheldon, 1973 in Antologia- i premi Hugo 1953-1975, Ed. Nord, 1978
L’immaginario è diventato di massa. I riferimenti, immediatamente comprensibili. Le parole restano importanti. Quelle che all’uscita di Neuromante erano scintillanti di novità sono adesso strumenti utili e duttili, anche troppo, come dimostrano i Redpill. Se Neuromante e Matrix mi lasciavano un’esplosiva voglia di cambiamento, Black Mirror mi disturba e mi deprime, no future. Ma mi rifiuto di pensare che il canale sia morto. Sono cambiate tante cose. In contemporanea, belle e brutte, o strane, semplicemente, cose di cui non sappiamo ancora bene cosa fare. Perciò se il canale è morto, cambio canale.
Vive in un condominio affollato e rumoroso. Le sue coinquiline e i suoi coinquilini hanno fatto di tutto nella vita: bibliotecarie, animatrici culturali, speaker alla radio, cantanti, mogli, mariti, amanti, complici… Ora ascolta tutte e tutti e sembra abbia visto, letto e goduto di ogni cosa. Me lei sa che quell’obiettivo non è stato ancora raggiunto e che si trova alla deriva in un punto indeterminato del processo.
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