(Le illustrazioni sono di Lucia Lamacchia, che è responsabile di quanto segue almeno quanto lo sono Ugo e Michel.)
La luce del mattino, quando entra in una stanza che non conosci, affetta un mondo spaventoso. Non esiste una camera che al mattino, con gli occhi ancora appesantiti dal sonno, non sembri dozzinale.
Miope e presbite. Una bella combinazione. Ho aperto gli occhi e quella figura me ne ha ricordata un’altra che, negli ultimi anni, quasi venti, ho rivisto centinaia di volte. Quella mattina è comparsa sullo schermo e abbiamo avuto la sensazione che il mondo che avevamo conosciuto, fino a quel momento, dovesse cambiare radicalmente.
C’ero. Il logo della CNN è rimasto in basso a destra sullo schermo di un televisore che avrei preferito fosse sintonizzato su un canale morto. Un tempo lunghissimo a guardare quella maledetta mattina di settembre in cui non era ancora cominciato l’autunno newyorkese, con le sue folle baluginanti e le sue nuvole luccicanti in canyon di acciaio che ti fanno sentire a casa.
Quell’autunno, quell’anno, non sarebbe arrivato. Non con quella forma che promette un amore spesso confuso con un nuovo dolore. E neanche negli anni a venire.
Fanculo i boomer! Ancora si vantano per il loro essere ragazzi del Ventesimo secolo e per l’aver vissuto, in diretta, il momento dell’allunaggio. Paralizzati davanti allo schermo. E ti dicono di ricordare la voce di Ruggero Orlando quando aveva sbagliato a esaltarsi in diretta per il momento del contatto. quasi che raccontare la storia prima degli altri fosse un modo per esserne parte.
Quando ho visto quel dolore fuori dal tempo, sullo schermo, quella nuvola di fumo, quell’instabilità che è durata un’eternità di paura e speranza, avrei voluto non essere parte della storia. Avrei voluto non sentire così vicino quell’altrove. Forse è stato proprio quello il momento in cui ho capito che bisognava vivere. Quello il momento in cui ho saputo che il crollo di quei giganti di cemento lontanissimi e il cratere, di macerie di corpi e di dolori, non era solo un vuoto nello skyline più famoso del mondo. È stato quello il momento in cui ho sentito che il buco nella mia anima era una voragine che bisognava colmare.
Affamato di vita. Da quel momento. Schiacciato dalla fame. Dalla sensazione di non aver vissuto, fatto, sentito, amato, sofferto… Come in quella canzone di Jannacci, ero uno che fa molto jogging, niente superalcolici, niente pane, niente vino, niente burro, mai una cotoletta, mai un giorno di ferie. Vivevo una vita da malato in attesa di morire sano.
Io questo vuoto lo sento anche adesso. Qui. in questo letto che non conosco, sdraiato accanto a te. Non mi pare un granché. Sono abituato a dormire da solo. Stanotte è stata difficile. Girandomi su questo materasso sconosciuto, cercando di addormentarmi, con rumori di respiri che non sono abituato a sentire, ho fatto un sacco di incontri. Toccare un corpo caldo, inatteso, di notte, nel letto, spaventa. Ogni volta devi ricostruire la memoria e capire cosa sta succedendo. Una situazione incongrua.
Cosa sta facendo, secondo te? Perché ci ha lasciati qui? Forse ai suoi occhi siamo meno vivi dei fiori recisi che agita in quel vaso. Li muove, li sposta, taglia rametti con le forbici per ragioni incomprensibili. Fiori che erano vivi in un campo o in una serra che sono stati strappati e mutilati per morire in una stanza arredata da un ingegnere svedese, allo scopo di infonderle una nota di colore.
Forse siamo la stessa cosa. Due corpi sradicati dalla strada e portati in questo letto per infondere una nota di calore a una notte dolorosa. Riportati in vita da mani sapienti che sanno dosare la dolcezza e il dolore. Un vaso, un po’ d’acqua e una speranza di vita assai breve che si esaurisce il martedì, quando passa il camion della nettezza urbana a ritirare rifiuti organici trattenuti da sacchetti verdi biodegradabili.
Quelle mani vive che rinfrescano quotidianamente uno spettacolo di vita che si oppone alla morte e al dolore. Gli orgasmi sono piccole morti. Stanotte ce ne sono state alcune. E le mani, vive e abili, hanno sempre riportato la vita tra noi. E poi è arrivato il sonno.
Non ci rivolge la parola, impegnata com’è a imbalsamare fiori già morti. Neanche un sorriso. Non cerca il contato degli sguardi, forse per evitare che il nostro imbarazzo si trasformi in giudizio e riprovazione. Andiamo?
Andiamo.