La prossima battaglia

Boris Battaglia | Una pietra sopra |

Originariamente pubblicato su “Scuola di Fumetto”, 107, luglio 2017.

«nei momenti di ubriachezza
negli istanti di memoria»
(Gianfranco Manfredi)

A febbraio 2018 compio mezzo secolo. Non lo dico perché ho voglia di parlare di me, anche se un po’ è quello che faccio sempre, ma per raccontarti una cosa. È che, per farlo, devo necessariamente partire da me. La cosa è questa: che giunto a questo punto del mio percorso anagrafico una cosa la so con certezza.
Lo stronzo che sono (e che in qualche modo mi diverto a essere) in parte è una questione genetica in parte è dovuta al fatto che, sarà stata circa la metà degli anni Ottanta, tra le pagine di una rivista che rubava la testata a una famosa fabbrica americana di frigoriferi, incontravo Filippo Scòzzari.
No. Non lui di persona. I suoi fumetti. Roba che ti forma il carattere da critico.
No. Non era quel gioiello del Mar delle Blatte, che è del 1983 e nemmeno Dalia Azzurra che è di qualche anno prima, e io avevo 15 anni in quegli anni lì e come riviste compravo “Corto Maltese” e “Totem”.
Sarà stato il 1986, e non lo so perché avevo comprato “Frigidaire”, non sapevo manco cosa fosse. Forse c’era Cicciolina in copertina, ma non potrei giurare che fu per quello. Insomma, per farla breve, a un certo punto mi trovo questa tavola, che è una storia intera e che non racconta niente. Cioè, apparentemente non racconta niente… ma ci arriviamo. C’è questo tipo che sembra una caricatura di Tintin (e che a mio avviso ispirerà Zep per il suo Titeuf) che si sveglia, si veste, tutto sotto le cure amorose della sua mamma che lui tratta come una pezza da piedi, e poi si sistema in terrazzo su una sdraio dove si riaddormenta. Raccontata così è una storiella in cui si struttura un character alquanto stronzo (vedi l’imprinting dei fumetti come ha funzionato su di me) in un topos italico-meridionale. Non a caso il titolo della storia è O’sole!

Eppure non era così. C’era una componente, che non si può riassumere nella trama, che rendeva quel fumetto qualcosa di molto più complesso di quello che ho raccontato. Questa cosa era l’uso della luce. Qualcosa di simile lo ritroverò (viene prima, certo, ma la mia storia del fumetto non può prescindere dalle mie sequenze di lettura) proprio nella Dalia Azzurra e in quel capolavoro assoluto che è Primo Carnera. Ma fu qui che lo vissi come una rivelazione, fu questa epifania che mi trasformò in un lettore di fumetti maturo (non ce ne sono molti) e, per naturale conseguenza, stronzo. Quella tavola non andava letta, andava guardata. Lasciando che i tagli delle ombre e delle luci, organizzate dal pennarello scozzariano, guidassero i miei occhi, il mio sguardo perse ogni innocenza alogica (quella purezza che non ti fa annoiare quando leggi certo fumetto seriale) e giunse in un orto montaliano (sì, oggi posso dire che affiancherei a quella tavola Meriggiare pallido assorto) nel quale il paesaggio esteriorizzato e oggettivato nelle sue concrete apparenze diventava il vero indifferente protagonista verso quella umile forma espressiva che più che agitarvisi, vi si adagiava dentro: il fumetto.

In altre parole e detto fuori dai denti: in quella tavola Scòzzari costruiva, con una ferocia e un’empietà senza eguali, la miglior critica a tutta l’esperienza espressiva del ’77. Movimento in cui Scòzzari era cresciuto e si era formato. L’esperienza di “Cannibale”, programmatica fin dalla scelta del titolo (fu una rivista numero unico fatta da Picabia), aveva rotto il dualismo tra fumetto avventuroso/popolare (“Tex” etc.) e fumetto colto intelligente ma antologico (“Linus”) con un’idea di fumetto dirompente e seminale. Fare fumetto per i cannibali non era solo raccontare storie sempre uguali o antologizzare in rivista storie di altri secondo il gusto personale di chi faceva la rivista. Fare una rivista di fumetti significò da qui in poi dare vita a un sistema organico in cui tutto, dalla grafica alle vite dei collaboratori si teneva. Finché tenne.
Quello che in certo qual modo sottende a tutta l’opera di Scòzzari successiva al 1986, fino a Prima Pagare e poi Ricordare e alle cose che va dicendo nelle interviste più recenti, è la critica di ciò che non tenne. E la critica dell’attuale situazione: tanti talenti solitari incapaci di una visione collettiva, persi in quel paesaggio oggettivato (come nella storia da cui ho preso le mosse) che è il fumetto attuale.

Però il problema, se vogliamo dirla tutta, è che la colpa è dei Cannibali, quelli sono figli loro, sono loro a non aver preparato una nuova generazione pronta per la prossima battaglia.

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(Quasi)