«Io è un altro. Se l’ottone si sveglia tromba, non è affatto colpa sua. Per me è evidente: assisto allo schiudersi del mio pensiero: lo osservo, lo ascolto: lancio una nota sull’archetto: la sinfonia fa il suo sommovimento in profondità, oppure d’un balzo è sulla scena.
Arthur Rimbaud, lettera del 15 maggio a Paul Demeny
Se i vecchi imbecilli non avessero trovato, del “me stesso”, soltanto il significato falso, non avremmo da spazzar via i milioni di scheletri che, da tempo infinito, hanno accumulato i prodotti della loro orba intelligenza, e se ne proclamano gli autori!»
Quando il 18 marzo 1871 a Parigi viene proclamata la Comune, Arthur Rimbaud ne è entusiasta. Vuole partire subito per la capitale francese e arruolarsi tra i franchi tiratori per difendere la città insorta. Ha già all’attivo parecchie fughe (tutte fallite) da Charleville, la sua città natale, che gli va troppo stretta; quindi coglie l’occasione e il 18 aprile parte. Non sappiamo nulla di quello che successe nei 26 giorni che durò questo viaggio dalle Ardenne verso Parigi. Sta di fatto che quando ritorna a Charleville Rimbaud è, passateci l’espressione, un altro.
Il 13 maggio 1871, mentre (dopo la caduta della fortezza di Vanves) l’assedio dei versagliesi si fa sempre più stretto su Parigi (che si concluderà con il massacro della settimana di sangue) Arthur Rimbaud è di nuovo a casa, e scrive al suo vecchio professore Georges Izambard una lettera che si conclude così:
«Voglio essere poeta, e mi sforzo di diventare veggente: mi rendo conto che non riuscite a capirmi, ma non saprei come spiegarmi ulteriormente. Si tratta di raggiungere l’ignoto attraverso lo sgretolamento di tutti i sensi. Le sofferenze sono indicibili, ma è necessario essere forti, essere nati poeta, e io mi sono riconosciuto poeta. Non è colpa mia. È falso dire: io penso; si dovrebbe dire: Mi si pensa. – Scusi il gioco di parole. Io è un altro.»
Gli storici della letteratura considerano questa lettera la prima vera espressione teorica della poetica rimbaudiana. Probabilmente è vero, ma a noi – che leggiamo fumetti – interessa soprattutto per un altro motivo. Motivo che, senza dubbio, Rimbaud rende esplicito nella riga successiva:
«Quindi, tanto peggio per il pezzo di legno che si ritrova violino!»
Bellissima metafora, assolutamente degna del gigantesco autore di Una stagione all’inferno. Il cui significato ci sembra, sia stato correttamente inteso da Jean Paul Sartre, quando con un’invenzione grafica quasi degna di un fumettista, riprendendo in qualche modo la metafora rimbaudiana del legno che diventa violino, della tromba che trombeggia e via così, scrive (da qualche parte ne L’Essere e il Niente: no, non ce lo ricordiamo dove, se lo abbiamo letto – e forse lo abbiamo letto – è stato un sacco di tempo fa – quelle di cui parliamo sono solo sensazioni rimasteci addosso) che il nostro “cogito” diventa realmente coscienza di sé solo quando come persona riesce a stare in un posto e prenderne la stessa forma. A diventare quel posto. A diventare altro. Un altro.
Ecco, siamo convinti che questa sia la condizione in cui ci troviamo tutti quando poniamo il nostro “cogito” all’interno di una storia. Sia che la si stia narrando, sia che la si stia ascoltando, leggendo, guardando. Diventiamo altro. Un altro. Un’altra.
Morsi dalla curiosità di verificare quanto questa cosa sia vera, e non solo una divertente trovata esistenzialista per sottrarre all’interpretazione psicanalitica quell’incomprensibile guazzabuglio di frasi che sono le cosiddette lettere del veggente di Rimbaud (quella a Izambard e quella a Demeny), e dargli un senso, abbiamo deciso che il tema di QUASI di questa settimana non poteva che essere proprio la frase rimbaudiana. E abbiamo chiesto a tutte le collaboratrici e a tutti i collaboratori di misurarsi con l’altra o l’altro, o addirittura le altre e gli altri che abitano il loro “cogito”, la loro coscienza.
Non siamo sicuri di aver dimostrato alcunché. Anzi, siamo certi di non avere dimostrato proprio niente. Quello che abbiamo scoperto, e che ci ha sbalordito, è che altro che io è un altro…
Io è proprio un sacco di gente.