«E, mentre “Linus” cresce sotto lo sguardo amoroso della redazione e dei lettori, Gandini e gli altri collaboratori del giornale respirano le trasformazioni che investono il Paese nella seconda metà degli anni Sessanta. Non hanno un disegno coerente, capace di armonizzare tutti gli elementi che vanno a comporre l’indice della rivista, mese dopo mese, ma sono individui curiosi e attenti, capaci di vivere pienamente la propria epoca.
Sarà proprio Gandini, sulle pagine di «Linus», quasi quindici anni dopo avere abbandonato la testata, a ricordare quanto fosse per lui importante inserire il mondo nel mensile che costruiva, un giorno dopo l’altro:
“Non scordo invece la gioia di avere un giornale e di raccontarci sopra tutto in modo da poter affermare «io l’ho detto prima».”
Costruire un mensile per Gandini significa avere una valvola di sfogo per la propria curiosità. Un posto, reso armonico dal suo sguardo, in cui far confluire, quasi casualmente, tutte le novità giunte in città: i fumetti, i cartoon, le illustrazioni, i racconti, le geografie, il teatro, le culture sommerse, il timore dei colpi di Stato, le proteste in piazza, la sessualità riscoperta, i libri più belli e, soprattutto, i giochi.»
L’introduzione di Linus: Storia di una rivoluzione nata per gioco si conclude così. Pur essendo quasi all’inizio del mio libro, quelle sono le ultime righe che ho scritto per quel lavoro. Era la mattina del primo gennaio 2014; più o meno le sette. Avevo partecipato a una festa della quale avrei fatto volentieri a meno ed ero fuggito poco dopo l’esaurirsi dei botti. Sul tavolo della cucina della casa in cui vivevo in quel momento, avevo concluso l’ennesima rilettura del libro e scritto quell’introduzione.
Per tutto il lustro precedente avevo ammorbato chiunque mi venisse a tiro con la storia di “Linus”, concentrandomi in maniera esasperante su ciascuna delle sfaccettature, intercettate in libri, riviste, film, documenti d’archivio… Un’ossessione che mi ha fatto intervistare un centinaio di individui, che mi hanno regalato testimonianze, ricordi, opinioni e invettive. Il mio amico Mattia, quando finalmente quel libro è uscito, mi ha confessato: «Pensavamo tutti che sarebbe stato la tua balena bianca.»
Sapevo che il libro sarebbe uscito, per Rizzoli Lizard e per l’interessamento appassionato di Simone Romani, che di quel marchio è il direttore, solo nell’aprile dell’anno successivo, in occasione dei festeggiamenti per il mezzo secolo della rivista. Ma quella mattina, con quindici mesi di anticipo, era finito e non avevo altro da aggiungere o togliere a quelle pagine. Il libro aveva ancora un titolo di lavorazione, quello che lo aveva accompagnato nei miei pensieri fin da quando avevo iniziato a scriverlo, Linus: Gli anni GG. Già, perché ero e sono convinto che quella rivista sia stata, per molto tempo, un prisma straordinario attraverso il quale leggere la storia culturale milanese e, di riflesso, dell’intero Paese. A quel titolo, dedicato interamente a Giovanni Gandini e agli anni Sessanta, avrebbe dovuto far seguito almeno un secondo volume dedicato a OdB.
Non avevo previsto che il baby blues, alla fine di quel lavoro, mi avrebbe investito con un treno di tristezza e follia.
Quando, il due gennaio ho iniziato a pensare al seguito, mi sono subito reso conto che, per raccontare Oreste del Buono, non mi sarebbe bastato rimanere avvinghiato a “Linus” e alle altre testate della casa editrice Milano Libri. Il mio progetto su OdB è diventato immediatamente una cosa diversa: invece di concentrarmi sulla rivista inventata da Gandini mi sarei concentrato sulla vita intellettuale di OdB e l’avrei analizzata usando le riviste che aveva diretto. Tutto ringalluzzito per questa idea (che mi sembrava meravigliosa) ho ricominciato il mio lavoro di ricerca inconsulta e priva di metodo tra librerie, rigattieri, biblioteche, fondi, archivi e osterie in cui chiacchierare con persone sempre molto disponibili.
Non immaginavo che mi sarei infranto contro due scogli e sarei stato costretto a rinchiudermi in un’oasi di tristezza da mettere a tacere con un’infilata di eccessi.
Il primo ostacolo è stato squisitamente tecnico. OdB dichiarava con orgoglio un numero enorme di dimissioni da ruoli all’interno di case editrici (negli ultimi anni della sua vita – probabilmente esagerando – diceva ce erano state centodieci). È stato direttore editoriale o responsabile di molte testate o collane, ma non esiste un database – uno strumento tipo OPAC, per intenderci – che censisca i ruoli di direzione e redazione. Il solo modo per scoprire quali testate avesse effettivamente diretto, sarebbe stato imbattersi nel suo nome nel colophon delle pubblicazioni cartacee. Scoprire la sua partecipazione all’edizione italiana di “Playboy” non sarebbe stato sicuramente un problema; intercettare la sua direzione di “Due”, rivista libro, inventata da Igort e uscita una sola volta per la casa editrice Telemaco di Daniele Brolli, poteva essere sfidante.
Il secondo ostacolo era morale. E mentre con un po’ di impegno, e oscillando con naturalezza su un’ossessività di fondo, avrei potuto sopperire all’inconveniente tecnico, con l’inibizione morale non mi sarebbe stato altrettanto facile.
Come ti dicevo, mentre cercavo di mettere a fuoco le mie ossessioni, ho parlato con molte persone. Gente personalmente coinvolta nelle imprese che stavo studiando, individui che mi regalavano con generosità le loro vanità e verità, fatte di aneddoti e particolari. Memorie fallaci da far collimare con i documenti e con i racconti di tutti gli altri. Erano tutti d’accordo: OdB era un gigante (fisicamente piccino). Un sacco di idee, una capacità di trarre il meglio anche da cose risibili, un intuito che gli consentiva di identificare il bello anche dove gli altri non lo vedevano, uno scrittore migliore di quanto fosse parso ai suoi contemporanei mentre uscivano i suoi romanzi. Il ritratto finale era quello di un meraviglioso intellettuale, capace di creare punti di contatto, in forma di pubblicazioni riviste o collane, tra gli autori e i pubblici. Un intellettuale. Proprio quello di cui io sentivo – e sento – un bisogno difficile da tenere a freno. Raccontare la sua storia, sarebbe equivalso a immergersi nella sfera dei miei bisogni e dei miei desideri.
Però, dannazione!, c’era un però. Tutti i discorsi sulla grandezza intellettuale di OdB, a un certo punto, deviavano ed entravano in un territorio meno luminoso. Non ho sentito nessuno che mi dicesse solo bene di quell’uomo. In quegli anni di chiacchierate a tappeto, avevo imparato che, quando intervisti qualcuno per parlare di un individuo la cui grandezza è ormai quasi canonizzata, tutte le piccolezze umane passano in secondo piano. Invece, mentre i discorsi sulla grandezza intellettuale di OdB si sviluppavano, iniziavano a comparire le ombre: la cattiveria innata, l’invidia, le risposte sprezzanti, le sferzate di rabbia, lo snobismo, la vigliaccheria, l’odio per la famiglia, la bigamia di fatto, la debolezza, la solitudine della malattia, l’assenza di acume commerciale, gli errori giganteschi, i seicento chilometri perché la salma rientrasse in auto nella casa di famiglia… Una serie di piccolezze, raccontate a voce, assenti dai documenti e difficilmente documentabili. Continuare a indagare la vita di quell’uomo sarebbe equivalso a immergersi nella sfera delle mie bassezze umane.
In quel momento, ho preferito rotolarmi nella mia grettezza umana, fatta di cattiverie, invidie, rabbia e tutta la gamma delle pulsioni esecrabili. Uno schifo tutto mio, da gestire nella mia sfera privata. In questo modo ho rinunciato a dire di quello di un altro uomo, nei confronti dei quali provavo – e provo – una grandissima stima.
Mi capita di ascoltare spesso Boris Battaglia mentre parla con qualcuno dei suoi libri. Una delle domande ricorrenti riguarda le sue fonti: «Come fai», gli chiedono, «a trovare tutte quelle informazioni?». Boris, senza scomporsi e senza paura di perdere l’aura da predatore di tesori perduti che sembra ammantarlo in quel momento, risponde: «Guarda che negli altri paesi esistono un sacco di materiali che indagano le vita degli autori e degli intellettuali senza paura di offendere alcuno, senza fare sconti».
Un altro caro amico, Andrea G. Ciccarelli, sottolinea spesso come gli inglesi distinguano chiaramente tra le biografie autorizzate, avvallate e supportate dall’individuo la cui vita viene narrata o dai suoi eredi, e quelle non autorizzate, nelle quali le ricerche sono state condotte con maggiore libertà. Conclude dicendo che quei libri vengono pubblicati, senza timore di denunce o ritorsioni.
Non credo che il discorso intorno alle cose inessenziali rispetto alla soddisfazione dei bisogni primari – la cultura, l’editoria, la produzione di manufatti che scatenano passione o divertimento – sia in questo paese meno maturo che in altri. Non credo nel provincialismo degli italiani, o almeno in un provincialismo più accentuato rispetto a quello messo in mostra da chi riporta sul documento d’identità una qualsiasi altra nazionalità. Sono convinto – e QUASI è una prova di questo credo – che ci siano spazi per dire quello che si vuole subendo solo marginalmente le ripicche di chi potrebbe offendersi.
Però mi faccio delle domande. E, siccome ho uno spazio (che non legge nessuno) in cui scriverle, le pongo anche a te. Per farle mi avvalgo dell’esempio più visibile nella storia dell’editoria a fumetti.
Perché non esiste una biografia di Sergio Bonelli, accessibile e capace di mettere a fuoco le luci e le ombre di quell’uomo? Potrebbe venire fuori una storia straordinaria che racconta eventi che nessuno di noi potrebbe sospettare. Faccio delle ipotesi verosimili ma di cui non so nulla: magari un certo romanzo di un autore di punta era un preciso resoconto della vita nella casa editrice; oppure un piatto in particolare era bandito dalle tavolate offerte da lui; o forse era un collezionista compulsivo di pornografia; o, ancora, un individuo che millantava un disprezzo tale per l’umanità che, alla sua morte, per quel che gli riguardava, il pianeta sarebbe addirittura potuto esplodere…
Davvero qualcuno teme che le idiosincrasie e le passioni segrete di un individuo che è stato un grande autore e un editore enorme ne possano scalfire l’immagine?
Scrive e parla, da almeno un quarto di secolo e quasi mai a sproposito, di fumetto e illustrazione . Ha imparato a districarsi nella vita, a colpi di karate, crescendo al Lazzaretto di Senago. Nonostante non viva più al Lazzaretto ha mantenuto il pessimo carattere e frequenta ancora gente poco raccomandabile, tipo Boris, con il quale, dopo una serata di quelle che non ti ricordi come sono cominciate, ha deciso di prendersi cura di (Quasi).