Io non sono io. Sono uno che ha parecchio in comune con me, ma che non è me. Però non c’entrano nulla né Arthur Rimbaud con il suo «Je est un autre», né la lettura che di questa frase ne ha fatto Jacques Lacan. Quello che voglio dire è che Alessandro Panzeri non è me, così come Romain Gary non era Emile Ajar e come Boris Vian non era Vernon Sullivan, o Serge Gainsbourg non era Gainsbarre.
Ogni doppio io però ha una data di nascita. Romain Gary, per esempio, che già era lo pseudonimo di Roman Kacew, diventa Emile Ajar dopo il suo travagliato rapporto con la moglie Jean Seberg; Gainsbarre sostituisce Gainsbourg dopo che Jane Birkin lo ha lasciato; Vernon Sullivan sbuca fuori nell’estate del 1946, quando Boris Vian, incazzato nero con il mondo letterario per non aver vinto il Prix de la Pleiade con La schiuma dei giorni, incontra Jean d’Halluin che gli chiede un romanzo per le sue Editions du Scoprion e in 15 giorni gli consegna Sputerò sulle vostre tombe (la stesura del libro iniziò il 5 agosto 1946, possiamo considerarla la data di nascita di Vernon).
Ecco. Alessandro, dopo un’infanzia strepitosa e promettente si è arenato nell’età adulta, suicidandosi in quella cosa disumana che gli avevano insegnato a vedere come la realizzazione di un’esistenza sensata: trovare lavoro. Lo stesso giorno di novembre del 1994 in cui Guy Debord si sparava una palla calibro 7,65 dritta nel cuore, lui – Alessandro – si faceva catturare da un contratto a tempo indeterminato di cui è prigioniero ancora oggi. Da quel bozzolo vuoto che era diventata la sua esistenza di lavoratore salariato sono nato io. Però non immaginarti una cosa alla Invasione degli ultracorpi, niente bozzoli gelatinosi da cui salto fuori. No. Nemmeno uno sdoppiamento alla Fight Club (al romanzo di Chuck Palahniuk, quando nasco io, mancano ancora due anni, quattro alla sua traduzione italiana). È stata una roba più alla Cocoon, una specie di rivelazione, però in negativo, in cui come i vecchietti del film si rendono conto che per continuare a vivere è necessario immaginarsi un mondo dove si sia sempre giovani, l’impiegatuccio asburgico Alessandro si è reso conto che forse, per riuscire ogni tanto a vivere, era necessario immaginarsi uno stronzo capace di prendersi i suoi spazi: Boris Battaglia.
Un’intuizione un po’ approssimativa questa, di crearsi un doppio io, manifestatasi durante la lettura del sesto volumetto – spillato – di Approximate Continuum Comic, un periodico trimestrale in cui Lewis Trondheim raccontava, con divertita autoironia, le sue vicende di giovane fumettista e quelle del suo gruppo di amici, tutti fumettisti, con i quali stava fondando una delle case editrici più seminali di sempre: L’Association. Ma cosa c’entra il doppio io con questo divertentissimo fumetto in cui Lewis affronta le proprie angosce di disegnatore evidentemente meno dotato degli altri del gruppo? Lui stesso sosterrà di aver realizzato le oltre 500 pagine di Lapinot et les Carottes de Patagonie, proprio per imparare a disegnare, o per lo meno per arrivare a uno stile grafico approssimativamente accettabile. In realtà per me Lewis era bravissimo già ai tempi della sua fanzine “ACCI H3319” e su quella effimera ma bellissima rivista che era “Labo”, dove pubblicava Monoliguistes e Psycanalyse Tra l’altro, devo ammettere di averlo scoperto grazie a quello che (fatti due conti veloci) posso dire essere un mio “fratello” da quasi tre decenni: il Gallo, che in quegli anni lì, appena ti vedeva ti sventolava sotto il naso le fanzine che aveva portato da Angoulême e ti ammorbava spiegandoti che stracazzo di genio era Trondheim. Capisci? Con questo lavoro sta dimostrando che non occorre essere virtuosi del disegno per essere grandi autori di fumetto, bastano audacia e talento! E Lewis ne è dotato. Di entrambi.
Che poi, alla fine, Gallo lo aveva convinto Alessandro che l’omino stilizzato e ripetutamente fotocopiato di Monolinguistes era il protagonista di un grande fumetto, costruito sul paradosso (che diventerà la cifra stilistica di Trondheim) tra l’essenzialità del disegno (spinto all’infantilità) e un gioco intelligente e raffinato di dialoghi e monologhi degni di Queneau e di Ionesco. L’omino di Trondheim, ultimo discendente di quella formidabile schiatta di pupazzi irriverenti che già aveva dato alla luce tipacci come Guignol o Pere Ubu, scansa proprio grazie al suo segno grafico ridotto quasi a grado zero, ogni implicazione simbolica. In questo modo resta libero da qualsiasi legame referenziale con ogni altra realtà che non sia la propria punto e basta. Un segno grafico tra gli altri sulla tavola, però dominante e assolutamente apodittico nell’affermare sé stesso: io sono.
Un altro.
Ecco: per una volta, anche se ti è sembrato, non stavo divagando, Ma stavo cercando di spiegarti cosa c’entra il mio doppio io con quel fumetto. C’entra. Perché anche Lewis Trondheim mica è approssimativamente qualcun altro, tipo Laurent Chabosy. Un po’ come, fatte le dovute proporzioni, Moebius non era Jean Giraud. O forse sì, visto che la sua autobiografia (Il mio doppio io) è firmata da entrambi: che poi loro erano in tre, c’era pure Gir, che era quello che firmava i Blueberry. Non essere un altro, ma essere tanti altri alle volte è comodo: se c’è una strada incognita da prendere mandi avanti Moebius, ma, quando la situazione si fa pericolosa, puoi sempre far conto sull’esperienza di Gir per organizzare la tua difesa. Come dice lui stesso: «Non impunemente ci si dedica per tutto l’anno alle avventure di Blueberry, capace di uscire vittorioso da situazioni ben più disperate, per quanto alla fine dell’episodio ci si chieda sempre come cavolo se la caverà…» (dida presa di peso dalla quarta tavola di La Deviazione).
In fondo, ci dice Moebius, il doppio non è che una delle tante comode prassi dell’immaginazione. Non priva di rischi, perché come sa Patrice Killoffer, che di doppi ne ha avuti addirittura 676, il rapporto con tutti gli altri che sono me, spesso è conflittuale, anche se – alla fin della fiera – nella realtà, quando finita la storia riaccendi la luce, non c’è nessun doppio, solo residui biologici e deiezioni (narrative).
Credo fosse per questo che Jean Giraud si era scelto come pseudonimo il nome dello scienziato che ha teorizzato la “figura impossibile” di quello strano anello che prende il suo nome: uno dei più affascinanti paradossi della geometria tipologica, nel quale pur apparendo due superfici, una interna e una esterna, la realtà dell’anello è quella di un’unica faccia. Se io è un altro, comunque sono io.
Non fa un cazzo da anni, ma è invecchiato lo stesso. Vive a Milano, e non potrebbe farlo in nessun’altra città italiana. Legge e parla di fumetti dal 1972 (anno in cui ancora non sapeva leggere). Ha una cattiva reputazione, ma non per merito suo. Ama e praticava la boxe, poi si è rotto. Beve tanto in compagnia di gente poco raccomandabile, tipo Paolo con il quale – per colpa di una di quelle bevute – si è ritrovato a curare QUASI.