Nel 1986, alla fine di settembre, della scuola già non ne potevo più. Ero al quinto anno di liceo scientifico e fino ad allora avevo vanificato qualsiasi tentativo del mondo di rendermi una persona migliore. Nei precedenti dodici anni di scolarizzazione più o meno dell’obbligo avevo conquistato, con grande fatica, la capacità di essere invisibile agli occhi di coetanei e professori. Nel corso di quell’ultimo anno scolastico avrei messo a frutto il grande patrimonio di trucchi che avevo imparato. Non disturbare in classe, non essere indisponente, non apparire, non intervenire, non ridere… Silenzioso come un ninja mi aggiravo per Saronno, sede dell’istituto, ed entravo in classe il meno possibile. Raramente qualcuno si accorgeva delle mie assenze e ancora più raramente la mia preparazione veniva sottoposta a verifica. Alla fine, ero quello strano di cui si sapeva solo che faceva karate e leggeva tanti fumetti.
Passando davanti all’edicola della stazione, avevo subito visto il primo numero di una nuova testata con lo stesso formato di “Tex” e “Zagor” e che, stranamente, non sembrava mortifero. Lo avevo immediatamente acquistato e, notando che la data riportata in copertina era ottobre 1986, mi ero augurato che fosse un regalo anticipato per il mio diciottesimo compleanno, che sarebbe arrivato il 4 di quel mese.
In copertina c’era questo tipo belloccio, con un ciuffo di capelli corvini, una giacca nera, una camicia rossa un paio di jeans, e una pistola in mano; sotto la luce della luna, dalla terra cimiteriale che il tizio stava pestando, emergevano spaventose braccia cadaveriche. “Dylan Dog”: L’alba dei morti viventi. Promettente.
Non so quante volte ho riletto quell’albo. Ricordo lo stupore per le mezzetinte usate da Angelo Stano, che disegnava come nessun altro disegnatore di “Tex” e Zagor”, da cui stavo alla larga, o di “Mister No” e “Martin Mystére”, che invece leggevo saltuariamente. Ricordo l’assoluta meraviglia per la presenza di una donna nuda. E poi ricordo quella storia. Una vicenda horror piena di zombie e demoni e grondante citazioni, omaggi e riferimenti; eppure, al tempo stesso, forte e strutturata. Se escludo La seconda genesi degli X-Men o Anderville, il primo numero di “Mickey Mouse Mistery Magazine”, non mi viene in mente nessun altro episodio di esordio di una serie capace di definire con così tanta precisione un personaggio e il suo mondo. Un canone cesellato con finezza rarissima in meno di cento pagine. Stano, il disegnatore, agiva su sceneggiatura di Tiziano Sclavi, un tipo che, per quanto ne sapevo, era stato il direttore, per poco più di un anno, di una rivista che oggi trovo bellissima e che allora non riuscivo a seguire con costanza, “Pilot”, secondo tentativo di edizione italiana della rivista francese di cui racconta Boris in Bande a parte.
Da quel momento, per i successivi trentacinque anni ma con frequenza progressivamente minore, mi sono interessato alla vita fittizia di “Dylan Dog”, leggendo sistematiche riscritture di quel primo episodio, firmate tanto da Sclavi quanto da sceneggiatori meno dotati (a volte, molto meno dotati). So bene quanto è importante che la serialità offra narrazioni consolatorie e, ogni volta che leggo “Dylan Dog”, cerco esattamente quello: consolazione in un mondo in cui tutto è sottomesso a una terrificante coazione a ripetere. Anche quando Roberto Recchioni effettua un reboot, anticipato da tre anni di vicende stagnanti, so che, con quella scrittura, meccanica e didascalica, sta cercando di consolare i lettori che hanno iniziato a leggere quella testata tra la metà degli anni Ottanta del secolo scorso e l’inizio del nuovo millennio, in un estremo tentativo di arginare l’inarrestabile emorragia di lettori.
Tutti gli universi letterari canonizzati offrono spazio per scritture apocrife: prosecuzioni, rinarrazioni, contaminazioni e What if. Anche “Dylan Dog”.
Alessandro Bilotta mette mano a Dylan Dog a partire dalla seconda metà degli anni Zero. Scrive, di preferenza, storie destinate alle collane sorte intorno alla testata principale e, fin dalla sua seconda prova, nel 2008, costruisce uno di quegli universi paralleli cui ci hanno abituato le grandi case editrici di supereroi statunitensi, Il pianeta dei morti. Partendo da un’intuizione, Bilotta allestisce una serie nella serie. Dylan Dog è invecchiato e solo. Il suo compagno di avventure, Groucho, è diventato uno zombie e, siccome Dylan non ha avuto il coraggio di abbatterlo, una tremenda epidemia di morte vivente si è abbattuta sul pianeta. Una dozzina di episodi appassionanti, culminata nello splendido Saluti da Undead del 2019, disegnato da Paolo Bacilieri. Quando una serie infila una zampata di quel tenore, è lecito sentire un po’ di paura: ci sono ottime possibilità che l’uscita successiva non sia in grado di soddisfare le aspettative dei lettori, di consolarli.
Inevitabilmente, il numero successivo di “Dylan Dog: Il pianeta dei morti” ha mandato il giocattolo in frantumi, mostrandone gli ingranaggi e rovinandone la magia.
Qualche settimana fa è uscito il trentaquattresimo numero di “Dylan Dog Speciale”, contenente le 160 pagine del nuovo episodio del ciclo di Alessandro Bilotta, in questa occasione con i disegni di Carlo Ambrosini.
Fino a quel punto “Il pianeta dei morti” era stata una serie perfetta, perché Bilotta aveva colto il segreto della potenza del personaggio sclaviano. Tutto il suo mito è stato definito nelle 94 pagine dell’Alba dei morti viventi. Non solo la caratterizzazione dei personaggi, le ritualità atte a trasformarsi in tormentone, i rapporti tra gli attori. In quel singolo albo sono state presentate tutte le funzioni con cui definire un’algebra del racconto, proprio come quella della Morfologia della fiaba di Vladimir Propp, meravigliosamente analizzata da Claude Bremond in un libro che da troppo tempo non viene ristampato, Logica del racconto (Bompiani, 1977).
Ognuno dei fascicoli del “Pianeta dei morti” si apre con un riassunto così esile da risultare paradossale, firmato dallo stesso Bilotta. È chiaro che il contesto delle avventure prevede che il lettore conosca Dylan Dog e abbia letto il primo numero della serie. Tutto il resto è accessorio. Si capirà, sfogliando pochissime pagine, che l’investigatore dell’incubo è invecchiato e vive in un mondo in cui il morbo degli zombie si è diffuso senza controllo, che il paziente zero è Groucho, e che il cattivo è Abraxas. Da lì in avanti “Il pianeta dei morti” è un gioco metatestuale, disciplina in cui Bilotta è un assoluto maestro. Il fumetto stesso di Dylan Dog è uno zombie, paralizzato in un momento preciso e costretto a rivivere all’infinito sempre la medesima avventura, in cui la presenza di un padre o di un figlio non producono alcun vincolo relazionale o narrativo. Bilotta è il migliore allievo di Sclavi: ha assorbito completamente la grammatica di Dylan Dog e si muove su quelle pagine con grande naturalezza, concedendosi il lusso di usare i disegni di Giampiero Casertano, Paolo Bacilieri e Carlo Ambrosini.
Poi, arriva questo nuovo episodio del ciclo di Bilotta, intitolato La grande consolazione, che si apre con un riassunto complesso che dichiara esplicitamente che le storie precedenti hanno prodotto uno sviluppo della vicenda e che, per capire a fondo il racconto, bisogna averle lette. Già questo fatto, che si risolve nella seconda di copertina, dovrebbe insospettire il lettore. Ad acuire ulteriormente la sensazione di allarme, interviene l’ultima frase di quel riassunto: «L’episodio che state per leggere affonda le sue radici nella storia di Dylan Dog nello storico numero 10 intitolato Attraverso lo specchio».
Con quella dichiarazione, e con la prosecuzione e rinarrazione di quell’episodio, Alessandro Bilotta modifica le regole del gioco. Dice esplicitamente di essere uscito dal fumetto seriale morto vivente, incastonato come una zanzara nell’ambra di quel numero uno da rinarrare di continuo, e di aver attuato un approccio revisionista alla storia del personaggio. Il Dylan Dog del “Pianeta dei morti” si colloca nella linea di continuity definita dalla numerazione sulla costa degli albi mensili e ha vissuto le oltre quattrocento storie fino a qui uscite.
Bilotta ha smontato L’alba dei morti viventi e ha provato diverse combinazioni possibili per rimontarlo: un mostro di Frankenstein narrativo che mostra in quanti modi un morto può essere riportato in vita. Con l’aggiunta di tasselli provenienti da un altro puzzle, purtroppo quel mostro non funziona più.
Scrive e parla, da almeno un quarto di secolo e quasi mai a sproposito, di fumetto e illustrazione . Ha imparato a districarsi nella vita, a colpi di karate, crescendo al Lazzaretto di Senago. Nonostante non viva più al Lazzaretto ha mantenuto il pessimo carattere e frequenta ancora gente poco raccomandabile, tipo Boris, con il quale, dopo una serata di quelle che non ti ricordi come sono cominciate, ha deciso di prendersi cura di (Quasi).