Pelle d’asino (Peau d’âne) è una fiaba popolare francese, resa celebre dalla versione scritta da Charles Perrault nel 1694. Nel 1697, fu inclusa nelle Histoires ou contes du temps passés, avec des moralités, diventati famosi come Les Contes de ma mère l’Oye, I racconti di mamma Oca. Il tema del travestimento con una pelle animale è molto antico: lo sciamano, nelle cerimonie, indossava una pelle animale per entrare nel regno della morte.
Scrive Terry Windling in Transformations: A Fairy Tale Memoir di aver incontrato le fiabe nelle «sontuose pagine» del Golden Book of Fairy Tales (Golden Books, 1958), tradotte dal francese da Marie Ponsot e illustrate da Adrienne Ségur. E prosegue dicendo: «Quando guardo ora alle storie che ho amato di più, vedo che hanno una cosa in comune: ognuna ha un “eroe ferito”, fisicamente sfregiato, nascosto o mutilato, costretto ad abbandonare la propria casa e obbligato a cercare la sua strada nel mondo.» E Midori Snyder, nel suo saggio The Armless Maiden and the Hero’s Journey, scrive che i giovani uomini nelle narrazioni eroiche escono di casa per fare fortuna, e trovano presto sul proprio cammino le sfide che li inizieranno alla virilità. «Quando le prove sono finite», continua, «[il giovane eroe maschio] torna di nuovo a casa trionfante, portando nella sua società nuove conoscenze, maturità e spesso una sposa magica. Raramente, al contrario, le giovani donne si allontanano semplicemente a grandi passi, a cercare il loro destino. Invece, il destino viene a bussare alla loro porta sotto forma di crisi, tradimento o magia, spingendole con la forza sulla via della trasformazione. Né alle giovani donne è spesso permesso di tornare di nuovo quando la storia è finita; invece, devono fare nuove vite e nuove alleanze, di solito lontano da casa.»
Ma come canta la canadese Bif Naked nella sua ballad estrema e un po’ anthemica, Lucky, resa celebre da Buffy The Vampire Slayer, «Era un lunedì quando il mio amore mi detto / non riuscirai mai a pagare la morte / solo con l’amore / cosa potevo dirti se non che ti amo / e darei la mia vita per la tua?» E in una mia personale fantasia: «I know we / we are / we are the lucky ones», è lo so, siamo noi quelle fortunate.
Comunque anch’io provo una forte attrazione per le fiabe e, tutte, mi turbano. Ho avuto la fortuna di raccontarle, mille volte a un bambino o a una bambina, o a una classe intera di facce spalancate nell’attesa. Rare altre volte le ho mormorate all’orecchio di un amante che non si addormentava, perché quando racconto le storie entro in trance quindi contenti tutti, scivoliamo nel sonno quasi insieme. E qualche volta mi prendo il tempo di raccontarle a me stessa. Il letto è morbido, e accogliente. Sono le quattro e forse se me la racconto, la mia fiaba preferita, quella che mi ossessiona, col suo carico di padri e vestiti, mi addormenterò.
[Sono le 4 del mattino. del 22 gennaio 2015. E non so ancora che certe cose del presente, cattive e pesanti come nuvole di chiodi, un giorno cadranno a terra col rumore di un mucchio di ferraglia inutile, e che prima ancora qualcuno, così amato mentre cominci la storia, non ci sarà più, mai, per sempre].
Pelle d’asino 1: Scappa!
La racconto come la ricordo io. Non sono sicura che i cattivi siano i cattivi giusti. E neanche i buoni.
C’era una volta un re che aveva una moglie bellissima, così bella che il re aveva vissuto fino in quel momento nella perfetta felicità di contemplarla ogni volta che lo voleva.
Un giorno la regina annunciò al re che avrebbero avuto un figlio. La coppia attese con gioia la nascita del bambino, ma il giorno che avrebbe dovuto coronare la loro felicità fu invece tragico: la regina morì nel dare alla luce una figlia.
Una fata amica della regina, che era presente, disse al re: «Non ho potuto fare nulla per salvare la vita della mia amica, ma ecco cosa posso fare: la bambina che è nata sarà la più bella, dolce, aggraziata e intelligente delle donne.»
E così fu. La bambina crebbe e divenne una fanciulla bellissima, con gli occhi del colore di un fascio di giacinti, e lisci capelli scuri come le ombre della luna, che sulla pietra sembrano bagnati. Viveva in completa solitudine, studiando la poesia e la musica, le storie degli antichi, la medicina. L’unica amica che aveva il permesso di visitarla era la fata, divenuta sua madrina.
Il re invece non si dava pace. Chiuso nei suoi appartamenti nell’ala opposta del palazzo camminava avanti e indietro, guardando gli innumerevoli ritratti della regina che splendevano luminosi sulla preziosa tappezzeria di broccato. Oppure si chiudeva per giorni nella reale stanza matrimoniale e stava sdraiato sul letto enorme, azzurro, con le imposte serrate e solo una lama di luce che illuminava la stanza passando attraverso una crepa nel legno.
I consiglieri del re non sapevano più che fare. Si riunirono nel giardino vicino alla fontana e bisbigliarono: Il re ha bisogno di una nuova moglie.
Dobbiamo subito convocare le principesse e le regine vedove o nubili di tutti i regni vicini e trovare una nuova sposa per il nostro signore.
È necessario.
Così i Consiglieri organizzarono un’enorme festa con tornei e saltimbanchi ed enormi tavoli carichi di cibo, e invitarono tutte le possibili spose con il loro seguito. Per tre giorni in re fu incoraggiato a intrattenersi con le principesse e regine che erano accorse numerose: e per tre giorni, dopo aver stancamente scambiato qualche parola educata con una o due di loro, si era allontanato con la faccia scura, le mani serrate dietro la schiena.
L’ultima sera i consiglieri, disperati, chiesero udienza al re e giunti al suo cospetto gli dissero:
«Maestà, sono giunte, anche da molto lontano, bellissime principesse e incantevoli regine. Nessuna di loro ha attratto la Vostra regale attenzione?»
«No», disse il re, «tutte erano belle, alcune meravigliose, e qualcuna di loro sembrava una ninfa sfuggita a un incantesimo, ma nessuna era paragonabile per bellezza e splendore alla mia defunta moglie».
In quel momento attraversò le stanze reali la figlia del re, che aveva partecipato alla festa, intimidita ma felice, lei sempre reclusa, di vedere tante meraviglie. Era vestita con un abito giallo che era appartenuto alla madre, e aveva un nastro rosa tra i capelli.
Il re la guardò con gli occhi sbarrati, poiché era molto tempo che non andava a visitare la figlia, e la ricordava come una bambina pensierosa e di poche parole.
«Ecco, finalmente una donna che è bella come lo era la regina», esultò ad alta voce, «forse perfino più bella, per quanto possa sembrare inconcepibile».
«Vostra figlia, Maestà?», osarono chiedere i Consiglieri.
«Non è forse la danna più bella del mondo? Non è forse degna di un re? Di un re potente, giusto e generoso, come io sono?»
I consiglieri si strinsero nelle spalle come corvi sfiorati da un vento freddo, e si accinsero a obbedire agli ordini del loro re.
Si recarono quindi negli appartamenti della fanciulla.
La principessa convocò immediatamente la fata sua madrina, implorandola di salvarla da un’orribile sorte. E qui mi sarei aspettata un intervento magico da questa fata, maga o strega – sappiamo da altre fiabe che il confine è labile – e invece questa fata da dei consigli brillanti, ma per niente magici. Perché anche la fata è in difficoltà? Non è un’adulta, e potente?
La fata disse: «Il re è il re, ma tu sei la principessa, e puoi chiedere un abito nuziale impossibile da fabbricare, e se il tuo desiderio non verrà esaudito sarai libera di rifiutare le nozze».
La principessa dunque convocò i consiglieri e disse loro che si sarebbe sposata solo in un abito color del vento.
Il re, sentita la richiesta della figlia. ordinò ai consiglieri di fabbricare un vestito color del vento, o avrebbe tagliato loro la testa.
I tessitori più abili del regno furono convocati e usando sottilissima seta di ragnatela tesserono, tagliarono e cucirono gli innumerevoli veli di un abito color dell’aria che si muoveva come una brezza leggera, producendo persino lo stesso fruscio delicato.
Quando ricevette l’abito, la principessa scoppiò a piangere e invocò nuovamente l’aiuto della madrina.
La fata, che ricordava con amarezza l’incantesimo con cui l’aveva resa la fanciulla più bella di qualsiasi reame, le suggerì di chiedere un abito colore della luna, che venne recapitato alla principessa il giorno dopo, scintillante di fili d’argento e grani di opale, e un abito color del sole, che arrivò in un tempo altrettanto breve e sfolgorava talmente d’oro ambra e brillanti da costringere la principessa e la fata a socchiudere gli occhi.
«Non siamo ancora sconfitte», disse allora la fata, «chiedi a tuo padre la cosa più preziosa del regno. La fonte della sua ricchezza. Chiedigli di uccidere l’asino che caga monete d’oro.»
L’asino! La principessa chiese la pelle dell’asino come ultimo, definitivo abito da sposa, non tagliato non cucito, la pelle così com’era. Era talmente certa che il re non avrebbe rinunciato all’asino che garantiva la sicurezza economica del regno, che non si preoccupò nemmeno che l’asino, animale da lei molto amato, potesse essere ucciso.
Ma il re inesorabile fece ammazzare l’asino e la pelle scuoiata e conciata venne depositata sul letto della principessa.
E la fata disse: «Scappa!».
Così la principessa scappò, di notte, in silenzio, portando con sé i suoi tre abiti nuziali, la pelle dell’asino e nient’altro. Lungo la strada nascose i vestiti in un fagotto, si sporcò viso e mani di terra e si coprì con la pelle dell’asino, come se fosse una pelle magica che poteva renderla animale e inconsapevole, ignorante del coltello e della ferita che si dissangua.
Dormì tra i cespugli e camminò e camminò e camminò finché non fu certa di aver oltrepassato i confini del regno del padre, e solo allora cercò una casa e chiese ospitalità in cambio di lavoro.
Mi piacciono gli animali, mormorò
E divenne la guardiana dei porci.
Pelle d’Asino II: Undercover
I porci per un fortunato caso erano brutti e maligni, cosi nessuno si sentiva in colpa quando li ammazzava e li mangiava. Lei lasciò che la chiamassero Pelle d’Asino. Pelle d’Asino faceva schifo a tutti perché non si levava mai quella pelle sporca e infangata di dosso.
E dopo un po’ la gente cominciò a notare che nascondeva il viso e le mani lerce: magari era così sfigurata o deforme da poter vivere solo con quei porci bruttissimi, che l’accettavano come un maiale strano.
Pelle d’Asino faceva schifo a tutti e non le importava, perché sapeva che in questo modo quel re suo padre non l’avrebbe mai più trovata.
Così Pelle d’Asino passava il tempo coi maiali e se c’era il sole si scaldava, se pioveva si bagnava. Dormiva in una minuscola casupola di assi in cui custodiva il suo unico tesoro: un sacco che conteneva, piegati e ripiegati, i preziosi abiti nuziali. Le stoffe erano talmente sottili che metri di strascico si potevano appallottolare in una mano.
E una volta alla settimana, la domenica mattina, Pelle d’asino si concedeva di lavarsi, pettinarsi e indossare uno dei vestiti. A volte era il vestito di vento, a volte quello di luna, raramente quello di sole.
E così passavano i mesi, e forse gli anni.
E poi una domenica mattina nebbiosa il figlio del re di un castello vicino, che faceva una ricognizione a cavallo delle terre del padre, notò un filo luminoso tremare nella nebbia. Incuriosito, cercò l’origine di quel raggio sottile e scoprì che veniva da una fessura in un’asse di legno, accatastata insieme ad altre per formare una piccola baraccopoli abitata da schiavi e servitori di basso rango.
Che sia un incendio, pensò.
Accostò l’occhio destro alla fessura e restò quasi accecato, perché all’interno di quella dimora miserabile sfolgorava il sole dell’estate. Pelle d’Asino quel giorno aveva indossato l’abito d’oro e la luce della minuscola candela con cui illuminava la stanza bastava a far scintillare l’abito come se fosse in piena luce. Raggi d’oro rimbalzavano da un bicchiere a un pezzo di specchio rotto a una stoviglia, e l’aria mormorava di api e fruscio d’erba.
Il principe rimase a lungo ad osservare la fanciulla radiosa che impastava il pane, e quando si allontanò si era ormai innamorato senza rimedio. Spezzato dalla visione, e dall’estate in quella baracca.
Nella nebbia incrociò un contadino, che si inchinò non appena lo ebbe riconosciuto.
«Chi abita in quella baracca d’angolo?», chiese ansioso.
«La guardiana dei porci, Maestà, una così brutta sporca e sgraziata che la chiamiamo tutti Pelle d’Asino».
Il principe restò senza parole.
Rientrò a Palazzo, si chiuse nelle sue stanze, fece tirare tutte le tende e si mise a letto.
E così restò per giorni e giorni, bevendo solo acqua che immediatamente si trasformava in lacrime.
«Cos’hai, figlio mio?», chiedeva il re, «Cosa ti fa soffrire, parla con noi, implorava la regina, e vedrai quello che possono fare un re e una regina determinati, a volte succedono persino dei miracoli.»
«Padre, madre, mi fa male qui», disse il principe toccandosi il petto, «ma anche qui e qui e qui», e indicava gli occhi, il naso, la bocca, «mi sono innamorato».
I genitori si illuminarono di gioia, e chiesero il nome della fortunata principessa, o giovane regina vedova, che aveva conquistato il cuore freddo e distante del loro figlio.
Il suo nome non lo conosco, ma la servitù la chiama Pelle d’Asino.
«Ossignur!», sbottò una delle dame che accudivano il principe, «Dev’essere uno scherzo, perché io ho intravisto talvolta la serva chiamata Pelle d’Asino, è un mostro, un animale quasi, lercia di sporcizia e fango, e il suo viso è cosi orribile che è costretta a tenerlo nascosto!».
Il re e la regina inorridirono, e chiamarono i migliori medici del regno perché trovassero un rimedio alla follia del principe.
E quei grandi medici gli fecero ingoiare pillole amaranto, bere liquidi blu e lilla, annusare polverine luccicanti; non si oppose neppure quando vollero togliergli il sangue con le sanguisughe.
Dopo giorni e giorni di tentativi inutili, la regina si recò a visitare il figlio. Era magrissimo e quasi non parlava più. Il cuore della regina si spezzò e disse: «Figlio mio cosa vorresti mangiare, se potessi scegliere tra tutti i cibi del mondo?»
«Mangerò», disse il principe con voce debolissima, «una ciambella impastata e cotta per me da Pelle d’Asino».
Invano la regina e le dame gli proponevano da giorni i dolci più squisiti e gli arrosti più teneri dei pasticceri e cuochi del palazzo.
Il principe aveva chiesto la ciambella e poi si era richiuso nel silenzio.
La regina allora si disse «tanto vale», coprì la veste di broccato verde smeraldo con un semplice mantello scuro, foderato di pelliccia, si coprì il volto bellissimo con un fitto velo nero e uscì in un cortile del palazzo, piccolo e abbandonato, in cui una carrozza scura, priva di stemmi, l’aspettava.
Neppure il re sapeva cosa stesse facendo.
Bussò alla porta di Pelle d’Asino, anche se era notte fonda, e appena la fragile porta si socchiuse parlò.
«Non so se tu sia una strega, o se la mente di mio figlio sia divorato da un morbo, o da un demone. Ho rispetto per entrambe le ipotesi. Mio figlio il principe ha espresso il desiderio di mangiare una focaccia impastata da te. Ne va della sua vita e io ti ordino, ma anche ti chiedo, di preparare quella focaccia che forse gli impedirà di morire di fame.».
Io credo che sia stata una focaccia dolce, non salata.
Credo che la regina volesse risvegliare il cuore di suo figlio, più che la sua mente. Che fosse rassegnata al cuore di suo figlio. Che lo amasse davvero, insomma.
La regina le fece scaricare ceste e sacchi di ingredienti finissimi e le disse: «Tornerò io stessa domattina e tu mi consegnerai la focaccia».
Si girò per avviarsi, poi sembrò pensare un attimo e aggiunse: «E che sia dolce».
La principessa, che aveva fatto appena in tempo a coprire con la lercia pelle d’asino il suo abito di vento, quando la porta si richiuse lasciò cadere la pelle sul pavimento e rimase immobile nella sua casetta, nell’abito che frusciava come il cielo di ottobre, scrutando il tavolo coperto di cesti di frutta, sacchi di farina, cartocci di uova e burro imperlato di freddo.
Pelle d’asino si rimboccò le maniche e cominciò a impastare la focaccia, la impastò e la impastò e pianse un pochino nell’impasto, perché temeva di essere stata scoperta. All’aurora portò la focaccia al forno e la fece cuocere lentamente, finché spuntò l’alba.
Tornò pensierosa alla sua casupola e attese i servi del palazzo.
La focaccia fu portata al castello e bella e soffice venne adagiata su un piatto di cristallo, che venne appoggiato su un piatto d’argento, che venne appoggiato su un piatto d’oro, e la regina stessa la portò al figlio per colazione.
Il principe, che non mangiava da molto tempo, prese una fetta di dolce, la morse cautamente e la masticò. Poi, stupefatto, si tolse di bocca un anellino minuscolo, con un’acquamarina limpida e preziosa che poteva solo far parte della dote di una regina. Madre e figlio si guardarono, e poi lo sapete.
Corsero tutti alla casupola, la regina spettinata, il principe in pigiama, spalancarono la porta e pelle d’asino era in mutande. No, ricordo male, Pelle d’asino aveva indossato l’abito d’oro e sfolgorava come un sole! I raggi di luce rivelavano il suo viso dolce, le sue mani delicate, i capelli intrecciati lunghi sulla schiena.
Forse i suoi occhi erano più luminosi dell’abito, e forse era uno sguardo di sfida, ma andò a finire che il principe sposò Pelle d’Asino, che non si chiamava Pelle d’Asino, ma…
Ma aveva un nome segreto che non rivelò mai a nessuno, neppure al principe, che la chiamava Amore e Mia Regina.
Questa storia è bella, penso mezza addormentata, le storie sono belle ma non finiscono bene. Cioè sono belle perché mi fanno una impressione strana, come di un tintinnio all’orecchio, ma poi alla fine non capisco mai se sono contenta.
E se c’è qualcuno che giace sdraiato accanto a me, nel buio: spero che quel tintinnio lo senta anche tu.
Anche io ho un nome segreto? Sì.
Vuoi che te lo dica in un orecchio?
Ecco, questo è il finale.
Vive in un condominio affollato e rumoroso. Le sue coinquiline e i suoi coinquilini hanno fatto di tutto nella vita: bibliotecarie, animatrici culturali, speaker alla radio, cantanti, mogli, mariti, amanti, complici… Ora ascolta tutte e tutti e sembra abbia visto, letto e goduto di ogni cosa. Me lei sa che quell’obiettivo non è stato ancora raggiunto e che si trova alla deriva in un punto indeterminato del processo.