Originariamente pubblicato il 28 febbraio 2013 su “Conversazioni sul fumetto”, compianto blog di Andrea Queirolo.
Cinquanta disegni di grande formato, china su carta. Tutti con forte prevalenza di nero, tranne il primo, che potrebbe essere la raffigurazione dell’autore e del visitatore ancora all’esterno del fitto del bosco. La mostra è imponente, cupa, nera. Le immagini sono ambienti fiabeschi: gabbie, alberi ritorti, segrete, laghi, muraglie di impalcature, colline e isole vulcaniche, dentro i quali ci si orienta seguendo una bambina che insegue mostri che la inseguono.
In ognuno di questi ambienti profondi e vastissimi, nei visi suggeriti e negati di creature al di sopra del bene e del male, si percepisce sempre il processo di realizzazione.
Sia che le linee si infittiscano in grate o in intricate ramificazioni, sia che si staglino larghissime su colli, resta sempre evidente lo strumento e il gesto che ha tracciato il segno. A ogni movimento dello sguardo devi decidere di vedere il bosco, i pavimenti, le gallerie, la luce che filtra dalle inferriate perché i segni che le compongono non sono mai celati. Mattotti non ti impone la visione, non crea un mondo mimetico, nel quale perdersi in un’illusione di realtà. Non finge di avere il potere di farti vedere cose che non esistono. Sei tu che decidi che quelle macchie di china sono un pavimento, quelle arruffate pennellate la chioma di alberi, quel triangolo di carta bianca la luce della luna su un tronco abbattuto. Sei libero di vedere contemporaneamente i segni e il mondo che quei segni compongono. Un luogo nel quale si destreggia una bambina che sembra sapere esattamente cosa fare, ed è pronta a accettare le conseguenze delle sue azioni. Come i visitatori, che si trovano davanti ai luoghi che affiorano dall’inconscio, e decidono a ogni immagine quale creatura affrontare e quale lasciare nascosta nell’ombra.