Articolo originariamente apparso su “Lo Spazio Bianco” in data 18 aprile 2013.
Il mondo creato da Jason, nome d’arte del norvegese John Arne Sæterøy , è regolato da alcuni elementi ricorrenti che l’autore utilizza e modifica ormai da vent’anni: l’uso di animali antropomorfi che non mostrano in nessuna occasione la benché minima espressione, uno stile grafico pulito ed essenziale che si rifà alla ligne claire di Hergé, un amore viscerale per il cinema e un’attenzione molto forte per i rapporti (il più delle volte sfortunati) tra uomo e donna.
Autore dalla produzione ampia e variegata, Jason ha viaggiato molto, ha vissuto in diversi paesi e sono ormai diversi anni che si è stabilito in pianta stabile in Francia. È stato pubblicato da molti editori al di fuori della Norvegia, ma è nella statunitense Fantagraphics Books che lo propone dal 2001, che ha trovato una seconda patria editoriale: questa casa editrice ha sistematicamente pubblicato ogni sua opera, lunga o corta che fosse, ancor più che in Francia, dove la sua produzione è suddivisa tra tre editori (Atrabile, Carabas e Glénat).
Jason ha scelto di raccontare in tutte le sue storie l’incomunicabilità dei propri personaggi e la loro incapacità di esprimere i sentimenti; a questo riguardo, è interessante leggere l’antologia Pocket Full of Rain (Fantagraphics Books, 2008)[i] che presenta una selezione di storie del periodo 1992-1999, in cui si può notare come determinati elementi fossero presenti, in forma acerba, fin dagli inizi. Sebbene la scelta dell’uso degli animali antropomorfi sia successiva (dopo l’inserimento di qualche animale parlante, i primi gatti e cani appaino attorno al 1997), il surrealismo di certe situazioni, l’uso degli elementi di genere e l’incapacità di mantenere una relazione sentimentale sono già presenti in questi racconti. Lo stile realistico usato inizialmente è senza dubbio ancora immaturo, anche se si evolve graficamente in poco tempo, ma ci si rende immediatamente conto di essere di fronte a un autore dalla personalità forte.
Dopo le prime produzioni, è possibile individuare tre filoni nella produzione generale di Jason.
Il realismo sperimentale: Ehi, aspetta… e Sshhhh!
Ehi, aspetta… (Black Velvet Editrice, 2003) e Sshhhh! (Black Velvet Editrice, 2004) formano una sorta di dittico, poiché l’approccio adottato da Jason non è come quello che avrebbe sviluppato successivamente. Pur essendo due volumi diversi (il primo una storia completa, il secondo un’antologia di racconti), quello che li accomuna è una narrazione “realistica” e un uso metaforico degli oggetti di tutti i giorni, e non mediata da un’elaborazione del “genere” o da un citazionismo (soprattutto cinematografico).
Ehi, aspetta… non è collegabile a nulla, se non a certe atmosfere rarefatte e surreali che riecheggiano nelle pellicole di Aki Kaurismäki, Jim Jarmush e John Cassavetes, oppure David Lynch, nei momenti allucinatori che contraddistinguono la parte finale. È un ritratto gelido e spietato quello di Jon, il protagonista, sia nella prima parte che descrive la sua infanzia, costellata di momenti di gioia e di noia comuni a tutti i bambini, nonché dei loro primi segreti, che nella seconda parte, quando descrive la vita da adulto, segnata dal ricordo di avere forse involontariamente provocato la morte dell’amico Bjorn, in cui in maniera analoga è presente una monotonia nel tram tram dell’esistenza dell’uomo, una rappresentazione apparentemente oggettiva costellata da momenti di solitudine, brevi telefonate al figlio con la moglie (probabilmente separata) o da incontri sessuali casuali ed estemporanei. Queste “istantanee” messe una accanto all’altra riescono a toccare profondamente l’animo del lettore, con la medesima forza dirompente del Chester Brown di Non mi sei mai piaciuto, in cui più l’autore era distaccato e oggettivo nel mettere in scena le varie situazioni, più rendeva partecipe i lettori dello strazio interiore che scuoteva i personaggi.
A questa intensità della materia narrativa si aggiungono numerosi sperimentalismi nell’utilizzo del mezzo Fumetto, come mai avrebbe più effettuato nelle opere successive: i trampoli che, come se fosse un espediente teatrale, gli adulti usano metaforicamente al posto delle macchine; lo starnuto con cui il protagonista passa dall’essere bambino all’età adulta; le foto in cui Jon vede come sarà da vecchio; il “sogno” che fa quando si ubriaca e parla con uno zombie, che gli farà rivivere il passato, fino a portarselo via con sé in un autobus. Questi elementi innovativi, sia a livello di linguaggio che di narrazione, sono usati anche nei racconti di Sshhhh! (per esempio, un uccello antropomorfo mette su casa con la fidanzata e va a vivere su un nido sopra un albero), aggiungendo un elemento di straniamento alla lettura di questi racconti che, pur rappresentando eventi normali e quotidiani, acquistano vigore e originalità proprio grazie a questo uso intelligente e personale del mezzo e della forma.
Il “cinema a fumetti”
La maggior parte dell’ampia produzione di Jason si nutre di atmosfere e rielaborazioni cinematografiche di ogni tipo, privilegiando soprattutto i film di genere, come si può notare anche dal suo blog. Tra gli elementi stranianti (ma anche affascinanti) c’è l’uso di stereotipi e convenzioni dei vari genere, inseriti però in un contesto quotidiano, dove le difficoltà di interazione e comunicazione tra le persone sono la norma.
Scorrendo le sue opere, si delinea una piccola enciclopedia cinematografica, a cui si sommano anche riferimenti fumettistici e letterari. Il giallo è utilizzato diverse volte e con varie accezioni: abbiamo il noir classico, in stile Le catene della colpa di Jacques Tourner, a cui si aggiungono i riferimenti dei film muti di Buster Keaton, rappresentati in Tell me something (Fantagraphics Books, 2004), dove una storia d’amore naufragata per colpa di una macchinazione, forse ha la possibilità di rivivere ancora; in Why are you doing this? (Fantagraphics Books, 2005) invece la vita del protagonista viene messa in pericolo perché ha assistito senza rendersi conto a un delitto, come nei classici film di Alfred Hitchcock e dei suoi epigoni, come Brian de Palma o il Roman Polanski di Frantic; nel racconto Emily says hello la vendetta di una donna portata avanti da un killer che si è innamorato di lei riecheggia La sposa in nero di François Truffaut e l’omonimo romanzo di Cornell Woolrich; Proto film noir infine realizza una sorta di metafumetto in cui il classico triangolo noir del Postino suona sempre due volte di James M. Cain (e delle varie trasposizioni cinematografiche di Tay Garnett, Luchino Visconti e Bob Rafelson) viene preso come archetipo di tutti i film noir, e come iniziatore viene ironicamente “interpretato” da personaggi vestiti da cavernicoli inseriti in un’ambientazione contemporanea. A sottolineare ulteriormente questo concetto, la situazione dà origine a innumerevoli variazioni sul tema e la ripetizione dell’omicidio viene utilizzata in una situazione analoga a quella del film Ricomincio da capo con Bill Murray.
Il western viene visto in modo decisamente ironico nel racconto che dà il titolo all’antologia Low Moon (Fantagraphics Books, 2009), in cui uno scontro all’ultimo sangue si rivela invece essere una partita a scacchi: la tensione che nasce prima che questo colpo di scena venga rivelato, viene esemplificata attraverso le situazioni tipiche del western e, soprattutto, degli avvenimenti che caratterizzano il film Mezzogiorno di fuoco.
Anche il filone dei mostri dei film horror viene ampiamente sfruttato nei libri Non puoi arrivarci da qui (Black Velvet Editrice, 2005; il dottore vuole dare una moglie alla creatura di Frankenstein, ma la prescelta scatena la gelosia dello scienziato), The living and the dead (Fantagraphics Books, 2007; un meteorite fa risvegliare i morti che, come zombie, incominciano a contagiare la popolazione mondiale, mentre il protagonista cerca di portare in salvo la prostituta di cui è innamorato) e Werewolves of Montpellier (Fantagraphics Books, 2010; un ladro si finge licantropo per portare avanti indisturbato le sue imprese, ma solleva l’interesse di una confraternita di veri licantropi). In questi casi, la mostruosità dei protagonisti viene utilizzata come metodo per risolvere i propri problemi sentimentali o relazionali, ma il più delle volte la situazione prende una svolta imprevista, che cambia radicalmente tutto.
Un aspetto spesso presente, ma che spesso non viene messo sufficientemente in evidenza è quello dell’ironia, che può anche arrivare al grottesco vero e proprio (per esempio, il protagonista di The living and the dead pur di stare vicino alla sua amata, appena trasformata in zombie, si fa contagiare da lei e quando stanno per divorare un cadavere, le offre la parte più succulenta: il cuore), stemperando il senso di solitudine, malinconia e, a volte, di oppressione che tutti i personaggi di queste storie provano.
Un’eccezione è rappresentata da The last Musketeer (Fantagraphics Books, 2008) in cui non è presente nessun sottotesto drammatico, ma è invece un vero e proprio divertissement, mescolando la classica invasione marziana con l’ingenuo sense of wonder dei fumetti di Buck Rogers e del Flash Gordon di Alex Raymond, la science fantasy di John Carter di Marte di Edgar Rice Burroughs e i romanzi di cappa e spada, dall’ovvio riferimento ai Tre moschettieri per arrivare ai duelli di Scaramouche e ai combattimenti acrobatici nei film di Douglas Fairbanks. In questo fumetto, una volta tanto, non ci sono rapporti di incomprensione tra i due sessi (o almeno, non toccano il protagonista) e tutto è giocato sull’epicità del moschettiere Athos, che vuole salvare il mondo dall’attacco extraterrestre e non ci pensa due volte a buttarsi a capofitto nell’avventura. Tutta la storia ha un giocoso tono leggero e anche i “battibecchi” della figlia del tiranno con l’ufficiale che la aiuta hanno più il tono della commedia che quello serio e drammatico delle altre opere di Jason. Ogni situazione esprime il piacere che l’autore ha senz’altro provato ed è una gioia anche vedere come tutti questi elementi appena descritti vengono rappresentati nell’usuale stile distaccato e con gli immancabili animali antropomorfi a cui siamo stati abituati A questa storia, poi, Jason ritornerà con il racconto Athos in America, contenuto nell’omonima antologia (Fantagraphics Books, 2012), che fa da prequel a questo libro.
Jason tocca il tema della fantascienza anche con I killed Adolf Hitler (Fantagraphics Books, 2007) dove affronta una tematica classica (i viaggi nel tempo per raddrizzare alcuni degli eventi drammatici che hanno costellato la storia dell’umanità) che si intreccia in maniera indissolubile con l’ennesimo rapporto sentimentale che sembra destinato a finire male.
Un approccio più laterale è presente nel racconto You are here: una donna viene rapita da un extraterrestre e il marito inizia a costruire un’astronave per andare a salvarla, impresa che durerà diversi decenni e che lo terrà lontano dal figlio che, nel frattempo, cresce e si fa una vita propria. La storia rappresenta una metafora abbastanza evidente della mancata rielaborazione della separazione all’interno della coppia e l’uso dell’elemento di “genere” risulta purtroppo superficiale e forse un po’ pretestuoso.
Una direzione leggermente diversa è invece presa in The left bank gang (Fantagraphics Books, 2006), dove partendo dalla situazione (vera) del gruppo di espatriati americani che avevano invaso Parigi negli anni Venti, inserisce una variazione geniale: Ernest Hemingway, Francis Scott Fitzgerald, James Joyce ed Ezra Pound non sono scrittori bensì autori di fumetti che vivono con difficoltà la propria situazione creativa e, non riuscendo ad arrivare alla fine del mese con il loro lavoro, decidono di compiere una rapina. Nella seconda parte del libro si inserisce una variazione molto forte con l’inserimento di nuovo del filone cinematografico: infatti la rapina viene scomposta e vista da diversi punti di vista (come nelle Iene di Quentin Tarantino) e finisce male, proprio come in Rapina a mano armata di Stanley Kubrick e in Colpo grosso, la versione originale del film Ocean’s Eleven.
L’elemento realistico di Jason trova spazio nel senso di disperazione economica che provano tutti, ma soprattutto il protagonista Ernest Hemingway… proprio come era accaduto realmente con quegli scrittori (e Francis Scott Fitzgerald in particolare, prima che pubblicasse il primo romanzo Di qua dal paradiso), che nell’atmosfera dorata di Parigi trovarono spunti per le loro storie e un senso di liberazione (e forse di pace momentanea) dopo gli orrori della Prima guerra mondiale (Hemingway si era arruolato come volontario ed era stato destinato a fare l’autista per le ambulanze della Croce rossa in Europa, esperienza che raccontò nel suo capolavoro Addio alle armi e in alcuni racconti del ciclo di Nick Adams). L’intenso senso di spaesamento, di Hemingway in particolare, diventa il centro dei dubbi maggiori e rende questo uno dei più disperati libri dell’autore, nonostante l’inserimento dell’elemento “leggero” della rapina: è il senso di disillusione e di richiesta di aiuto verso qualcosa che non si riesce a comprendere chiaramente che chiude in maniera tragica questa storia.
Le “collaborazioni”: The Iron Wagon e Isle of 100.000 graves
Ci sono infine due opere che sembrano allontanarsi da quanto detto finora, e corrispondono alle “collaborazioni” che Jason ha avuto. La prima, The Iron Wagon (Fantagraphics Books, 2003), si può solo parzialmente considerare un lavoro a quattro mani, visto che si tratta dell’adattamento del romanzo più famoso di Stein Riverton (alias Sven Elvestad). La distanza dall’opera tradizionale di Jason la si nota nei fitti dialoghi, che costellano soprattutto la parte finale del libro, e nella fedeltà quasi letterale al giallo originale, che tante reminiscenze ha con i libri di Agatha Christie. Quello che però appartiene profondamente a Jason, e che sottolinea continuamente, è il senso di oppressione che prova il narratore protagonista, provocato dall’arrivo e dalle azioni dell’ambiguo poliziotto giunto per risolvere il caso di omicidio, nonché dai classici comportamenti insicuri dei personaggi. È l’atmosfera e la relazione tra tutti i presenti che ricrea un’atmosfera abbastanza in linea con le classiche storie di Jason.
Isle of 100.000 graves (Fantagraphics Books, 2011), invece, è il primo libro disegnato da Jason ma scritto da un altro autore, Fred Vehlmann, uno tra gli sceneggiatori francesi più quotati del momento. In questo caso la storia dello scrittore si adatta quasi perfettamente allo stile di Jason, mettendo in scena rapporti familiari tesi e situazioni al limite del nonsense, che il “raffreddamento” operato da Jason con il disegno e il ritmo della narrazione rende quasi completamente suo. I dialoghi tra la ragazzina protagonista e il padre alla conclusione della vicenda sono abbastanza in linea con le storie del norvegese, ma sono altri elementi, come l’umorismo, l’ironia utilizzata per raccontare l’apprendista imperfetto Tobias, i combattimenti e una scansione del racconto tipicamente francese (una situazione per ogni pagina) a far appartenere questa storia più allo sceneggiatore che a Jason. La collaborazione, comunque, funziona abbastanza e c’è una buona interazione tra i due, rendendo quindi questo libro non così profondamente diverso rispetto a quello che solitamente ci attendiamo dal disegnatore.
Questa breve introduzione ha il semplice scopo di delineare alcune linee su cui opera questo importante autore, ma corre il rischio che, considerata la velocità con cui continua a produrre, possa invecchiare in breve tempo. Quest’anno, per esempio, è già previsto un nuovo libro di oltre 150 pagine (Lost Cat), mentre la lista di nuovi progetti a cui si dedicherà è sempre molto lunga. È quindi probabile che queste categorie in cui ho cercato di suddividere la sua produzione potranno allargarsi, se non addirittura modificarsi perché una cosa è certa: con l’imprevedibilità delle direzioni che potranno prendere le sue opere future, nulla è mai sicuro con Jason. Nemmeno che i volti dei suoi animali antropomorfi mantengano per sempre la loro impassibilità.
[i] Anche se l’edizione Fantagraphics non è sempre la prima edizione dei lavori di Jason, è stato scelto per coerenza di utilizzare i titoli di questo editore per tutte le opere non edite in Italia.
Ha accumulato diversi sostantivi a cui può aggiungere il prefisso “ex” (fanzinaro, correttore di bozze, redattore, editore, letterista-impaginatore sotto pseudonimo, articolista…), mentre continua ancora, sporadicamente e per passione, a tradurre libri a fumetti.