«Se dobbiamo credere alla tradizione, una sola volta, in un periodo di una mezza dozzina di secoli o più, il colore gettò uno splendore transitorio sulle vite dei nostri progenitori più lontani». Così il narratore di Flatlandia, un Quadrato chiuso in carcere per aver parlato della Terza dimensione, comincia la narrazione della Rivoluzione e dei Disordini, soffocati in un bagno di sangue, che l’introduzione del Colore in un mondo bidimensionale e ferocemente conservatore aveva innescato.
Flatlandia è un libro che amo con dedizione e fedeltà. È un libro ingannevole: Edwin A. Abbott, rettore della City of London School dal 1865 al 1889, era uno che, come afferma un suo biografo, «ardeva di energia intellettuale senza perseguitare né estenuare i discepoli». Nei ventiquattro anni del suo rettorato la CLS diventò famosa per il livello di eccellenza della filologia comparata, ma anche per aver reso obbligatorio lo studio della chimica per tutti gli alunni: il risultato fu che dalla CSL uscirono filologi, letterati e scienziati di gran pregio. Quando si ritirò dall’insegnamento si dedicò a scrivere più di quaranta «manuali scolastici, lavori eruditi di carattere letterario e opere teologiche». Oggi lo ricordiamo per Flatlandia, apparso anonimo nel 1882 e poi, riveduto e corretto, nel 1884, come espediente per parlare di matematica in modo divulgativo e divertente. Ma questo “jeu d’esprit”, come lo chiama l’anonimo autore della lettera a “Nature”, famosa rivista scientifica inglese, pubblicata il 12 febbraio 1920, non ha ricevuto l’attenzione che meritava e va riscoperto perché, letto dopo Einstein e la relatività, mostra di averne anticipato alcuni aspetti fondamentali.
C’è un punto in quella lettera, che ha portato la comunità scientifica a riscoprire Abbott e Adelphi a pubblicarlo tradotto da Masolino D’Amico nel 1993, che mi emoziona:
«…si ritenga che il passato e il futuro dell’universo siano tutti dipinti in uno spazio quadridimensionale, e visibili da ogni essere che abbia la conoscenza della quarta dimensione. Se c’è moto del nostro spazio tridimensionale in rapporto alla quarta dimensione, tutti i cambiamenti che sperimentiamo e che attribuiamo al flusso del tempo saranno dovuti semplicemente a questo, dato che la totalità del futuro e del passato esistono sempre entro la quarta dimensione.»
Che meraviglia.
Adesso basta guardare film come Arrival di Denis Villeneuve, uscito nel 2016, per arrivare alla stessa conclusione. Per non parlare del mio amato Mattatoio n. 5 di Kurt Vonnegut, che ne parlava nel 1969, année non solo erotique ma assai revolutionaire.
Io odio i cambiamenti, ma li adoro in un secondo momento. Questo mi induce un bungee jumping interiore terrificante ogni volta che qualcosa di importante cambia. Precipito precipito poi BOING torno su, spesso euforica di eccitazione. Per esempio: ho notato che ogni 5 anni circa ho cambiato lavoro, per scelta, come sazia di qualcosa e affamata d’altro. E ogni volta ero terrorizzata e piena di aspettative nello stesso tempo.
È molto pesante affrontare quel su e giù estremo, ma ho imparato a riconoscerlo: cambiamento seguito da terrore seguito da adattamento, fioritura di idee nuove, cambio di prospettive, progetti. È come se inizialmente mi perdessi su un sentiero che non conosco, ma poi mi incantassi per la vegetazione nuova, gli uccelli strani, gli animali che fanno rumore tra i cespugli.
La società di Flatlandia è rigidamente conservatrice, feroce nei confronti delle donne, basata su un principio molto semplice: i suoi abitanti sono figure geometriche bidimensionali (per intenderci, non ci si può scavalcare, ma solo aggirare) e più lati hanno, più sono posizionati in alto nella scala sociale. Quel che nasci, rimani. Le donne, Linee rette, sono nella condizione più infima e atroce, ma anche se sei un Triangolo non sei messo bene, ti spetteranno le mansioni più basse, o l’esercito. Però magari tuo figlio avrà un lato in più, e sarà un Quadrato, cioè un gentiluomo, (Square, quadrato, suona quasi come Squire). Il narratore di Flatlandia è un Quadrato, ma questo non gli impedirà di finire in carcere per aver raccontato di un incontro ravvicinato del terzo tipo, cioè con la terza dimensione, che però non esiste, non può esistere, non deve esistere, e quindi eccolo incarcerato, nonostante la posizione sociale.
Abbott sa il fatto suo, e ci introduce alle complicatissime pratiche che gli abitanti di questo paese maledetto (l’aggettivo è mio, e opinabile, perché i Flatlanders com’è ovvio pensano che sia il migliore, e l’unico, dei mondi possibili) hanno codificato per riconoscersi, muoversi, non infilzarsi sulle punte acuminate delle Donne e dei Triangolo isosceli. Ma il capitolo a cui sto pensando adesso, e c’è un nesso con questo momento della mia vita, è quello che racconta di Cromatiste e della Rivoluzione dei Colori.
Non inganni il nome: si tratta di un evento che culmina in una spietata epurazione e in una carneficina: ma per un po’, lo dice anche il narratore, è stato bello, Flatlandia era piena di colore, e persino i pensieri e il linguaggio ne sono cambiati.
Del rivoluzionario involontario che verrà ricordato come Cromatiste si racconta, dopo aver scoperto come produrre alcuni colori, che «cominciasse dapprima con la decorazione della propria casa, poi con quella dei suoi schiavi, poi di suo padre, dei suoi figli e nipoti, e da ultimo di se stesso. I vantaggi e la bellezza dei risultati furono subito chiari a tutti. Ovunque Cromatiste volgesse il suo contorno variegato, subito attirava l’attenzione e imponeva il rispetto: nessuno aveva bisogno di “tastarlo”; nessuno scambiava il suo davanti col suo didietro; ogni suo movimento era percepito subito dai vicini senza il minimo sforzo per le loro facoltà.»
Ovviamente, «la moda dilagò come un incendio prima che fosse passata una settimana» e «solo pochi fra i pentagoni più conservatori continuavano a tener duro sulle loro posizioni». Dice il Quadrato: «chiamateli pure immorali, licenziosi, anarchici anti scientifici, tutto quello che volete…. ma da un punto di vista estetico quei giorni antichi della Rivoluzione del Colore furono l’infanzia glorioso dell’Arte in Flatlandia – un’infanzia, ahimé, che non maturò mai in virilità. Vivere era allora una delizia di per sé, perché vivere voleva dire vedere.»
In questi ultimi mesi, più o meno dalla fine del primo lockdown, mi è venuta una specie di ossessione per il colore dei miei capelli. Sono nata con i capelli neri e sono andata avanti per anni a tagliarli come Valentina perché erano neri, e il mio nasone su un musino triangolare veniva ingentilito dalla frangia e dalle punte corte che segnano la mandibola, e credo di essere stata così per più di dieci anni. Poi un giorno, dopo l’ennesima straziante fine di una relazione – ogni fine è straziante, per me, cosa che non esclude il sollievo, ma lo strazio è una regola da Monopoly, chi è condannato alla Prigione ci va direttamente e senza mai passare dal Via – sono andata dal parrucchiere e gli ho chiesto di diventare Arancione, come i mandarini. Dopo ore di lavoro ero irriconoscibile, era esaltante. Sono corsa all’appuntamento con un amico per vedere un film e gli sono arrivata a tre centimetri prima che mi riconoscesse. Invece di piangere, ridevo. Che sollievo.
Negli anni successivi ho pasticciato un po’, scuri, rossi, scuri di nuovo, rossi di nuovo….chi ha provato sa che ogni volta è come se ognuno dei tuoi vestiti diventasse nuovo, mai indossato, perché la persona che vedi nello specchio prima non c’era, cioè, era diversa, ma diciamo che non c’era, e quella creatura colorata è viva per la prima volta. Pronta per far sembrare ogni maglione verde straordinariamente verde, ogni vestito rosa assurdamente rosa.
Ma adesso sono preoccupata. Un po’. Negli ultimi quattro mesi sono stata Rosso papavero, Rosa, Viola, Blu, Celeste, e adesso sto cercando di mantenere un minimo di controllo e di restare così, castana con le punte Arancio. Ma giuro che mi prudono le mani, vorrei provare il Verde per esempio. Non capisco come i miei capelli non si siano ancora disintegrati con le decolorazioni che mi faccio da sola, ma per ora tutto bene. Solo, questa frenesia mi ha fatto riflettere, ho letto un po’ in giro, e ho scoperto che la psicologia non è concorde sul fatto che si possa sviluppare una dipendenza dal colorarsi i capelli. Però ne hanno discusso, e questo è interessante. Si sono divisi. Alcuni pensano che non sia propriamente inquadrabile come dipendenza, altri ne ritrovano i tratti fondamentali. La verità è che in questo periodo mi sembra tutto incerto e l’unico modo di avere controllo su qualcosa è decidere di che colore voglio essere. Succede così anche con i tatuaggi, in un mondo in cui non abbiamo controllo su niente il nostro corpo è l’unica cosa che possiamo veramente modificare con uno sforzo relativo. E ovviamente io ho vari tatuaggi, visto che sul resto del mondo non ho un gran controllo. Sono tatuaggi di scuola giapponese, molto colorati, peonie crisantemi rondini e farfalle. Io, però, non ho molto controllo neanche su me stessa. Il mio cervello è un paese col coprifuoco e disordini e incendi per le strade.
La Rivoluzione del Colore a Flatlandia diventa una rivoluzione sociale, cominciano le rivendicazioni delle Donne e dei Triangoli delle classi più oppresse, e sfocia nella Progetto di Legge sul Colore Universale. Mentre poesia, linguaggio e arte in generale sbocciano, «le Arti dell’intelletto» subiscono una rapida decadenza. «Non essendo più necessaria, l’Arte del riconoscimento a Vista non si praticava più, lo studio della Geometria, della Statica, della Cinetica e di altre materie venne ben presto considerato superfluo». Soprattutto, cominciano le rivendicazioni delle classi più basse, persino gli underdogs, gli Isosceli, cominciano a sostenere che il Colore, che è una seconda Natura, ha distrutto la necessità delle distinzioni aristocratiche e quindi anche la Legge dovrebbe seguire lo stesso processo: «e pertanto tutti gli individui e tutte le classi devono essere riconosciuti come assolutamente uguali e godere degli stessi diritti».
La Rivoluzione francese di Flatlandia viene astutamente evitata mettendo gli uni contro gli altri – e le altre, le donne, le infime tra gli infimi, che per non rischiare di bucare e uccidere gli uomini sono costrette in casa, analfabete, e se ne escono devono muoversi ondulando ed emettendo incessantemente il “grido di pace”, un mugolio che serve a renderle visibili quando sono frontali, evitando che siano micidiali aghi invisibili frontalmente.
Perché il Progetto di Legge sul Colore Universale aveva fatto presa sulle donne, e – rido tantissimo, maledetto Abbott, per la tua finezza nel riconoscere la maledizione dell’ignoranza che rischia di sabotare anche le rivendicazioni più giuste – «in più di una famiglia nobile le mogli si misero a perseguitare i mariti supplicandoli di cessare di opporsi al Progetto di Legge sul Colore; e alcune, trovando vane le loro preghiere persero la testa e massacrarono marito e prole innocente, incontrando anch’esse la morte nell’atto della carneficina».
Il Gran Circolo, con argomenti falsamente ragionevoli, riesce a creare confusione e dubbio e a sparpagliare le fila dei rivoltosi, e «mezz’ora dopo non uno era rimasto vivo di quella vasta moltitudine, e i frammenti di centoquarantamila membri della Classe Criminale, trucidati l’uno dall’angolo dell’altro, attestavano il trionfo dell’Ordine». Segue una specie di pulizia etnica che decima gli operai e non risparmia nessun altro triangolo sospetto di irregolarità, e da quel momento l’uso del Colore fu abolito.
La Classe Criminale è tutta gente che ha solo tre lati. Delle Donne ho già detto: tutte uguali, tutte schiave. La storia di Flatlandia, prima e dopo i colori, scorre immobile. Sarà l’incontro del nostro Quadrato con una Sfera a rischiare di provocare un nuovo scossone. E questo a Flatlandia non deve succedere: non appena il Quadrato comincia a parlare di una terza dimensione viene incarcerato.
Una cosa che mi interessa molto è il tempo. Leggo quasi tutto quello che trovo sull’argomento e alla fine quello che ho capito, credo, è che il tempo è cambiamento. Se non cambiasse nulla il tempo non esisterebbe. Qualunque tipo di interazione, anche solo fra due particelle, crea quello che noi chiamiamo Tempo che dovrebbe più correttamente forse chiamarsi Mutamento. O Impermanenza, come dicono i buddisti, ma forse una parola ancora migliore è Interazione: se non c’è Interazione non c’è Tempo.
Per questo nella fiaba della Bella addormentata, quando il muro impenetrabile di rovi cresce intorno al castello, tutti quelli che si addormentano possono risvegliarsi più di un secolo dopo identici, senza essere invecchiati di un giorno. Quell’isolamento ha impedito qualsiasi tipo di interazione col mondo e quei rovi, in modo simbolico, descrivono proprio l’unica condizione in cui il tempo cessa di esistere. Non è un sonno pieno di sogni quello della principessa e dei suoi servitori: è una paralisi, l’assenza di qualunque cambiamento. Parlare di tempo non ha più senso tra quelle pareti di spine. L’arrivo del principe, la prima interazione in quella bolla di universo immobile, fa ripartire quel che chiamiamo tempo. È magico.
Sto cercando di controllare, in qualche modo, tempo e spazio continuando a cambiare colore di capelli? O qualcos’altro? È una specie di messaggio?
Reki Kawahara, di “Sword Art Online”, ha twittato: «[…] avete presente che nelle light novel, nei manga, negli anime e nei videogiochi ci sono personaggi con i capelli rosa e azzurri? Ho sempre pensato che questi personaggi li avessero neri, castani o al massimo biondi e che colorarglieli fosse in qualche modo una forma di espressione artistica, non che se li fossero tinti o che fosse il loro colore (decisamente inusuale) naturale.». E ha avuto l’idea di fare un sondaggio on line. Il risultato di questo sondaggio a scelta multipla è stato:
- Il colore di capelli di quei personaggi è naturale (64%)
- I personaggi si sono tinti i capelli di quel colore (7%)
- I personaggi hanno capelli di un colore specifico ma vengono indicati diversamente per scopi artistici (26%)
- Altro (3%)
Solo una persona su quattro condivide l’opinione di Kawahara. Io faccio parte di quel quarto: il colore è un efficacissimo modo per dare una definizione psicologica al personaggio. È difficile pensare che una ragazzina coi capelli rosa o azzurri possa commettere qualcosa di realmente cattivo. E ho pensato che forse, oltre al desiderio di controllo sul mondo, eternamente frustrato, e di creare ganci mnemonici (quando avevo i capelli viola, nel periodo in cui avevo i capelli blu), nella mia ossessione c’entrava il desiderio di mandare un messaggio. Per esempio, sono certa che quando sono stata per un po’ Azzurra pensavo alla Fata Turchina così come ne parla Giorgio Manganelli in Pinocchio, un libro parallelo: un Mostro Amoroso. È legata a Pinocchio in un entanglement quantistico, muta col suo mutare, addirittura è viva o morta a seconda di quello che fa il burattino avventuroso: bambina morta, sorellina di Pinocchio, mamma… In lei l’unica cosa che non varia sono quei capelli color cielo. In qualche modo la definizione di Mostro Amoroso mi si adatta, ho pensato. E ho ordinato online due flaconi di Coral Blue.
Anche gli animali cambiano colore per esprimersi. Il Rumble Fish, il pesce combattente del meraviglioso film del 1983 di Coppola cambia colore clamorosamente per dire: «Sono incazzato vieni qui che ti faccio a pezzi!» Il culo blu del mandrillo maschio dice: «Ehi, sono qui, se sei una femmina chiamami, se sei un altro animale occhio che sono il primate più grosso dopo il gorilla, e qui davanti ho due zanne spaventose che al momento non vedi, perché mi rendo conto che sei ancora ipnotizzato dal mio didietro blu. Non ce l’ha nessun altro mammifero! Noi mandrilli siamo i più fighi!»
E questo mandrillo esibizionista mi assomiglia molto. Ma: altri animali cambiano colore per difendersi, mimetizzarsi, come il camaleonte, la volpe artica, il polpo mimetico che imita animali velenosi, furbo.
C’è un tentativo di difesa forse anche nel mio continuo cambiamento di colore?
Perché, ossimoro, da una parte mi dà la sensazione di non essere definibile, dall’altra conferma la mia etichetta di matta.
L’ultima maglietta che ho comprato online dice «Cute but Psycho».
Sono piena di domande, e vaghe risposte, tutte mescolate. Il tempo, il mondo, le interazioni con gli altri e le etichette che ti si incollano addosso. Io odio i cambiamenti, ma li adoro in un secondo momento. Quasi sempre. Perché, non casualmente, l’Arcano senza nome nei Tarocchi di Marsiglia, il tredicesimo, quello che indica il cambiamento, raffigura la morte.
Perché il Quadrato è incarcerato nei Piombi di Flatlandia? Perché ha avuto un’esperienza diretta dell’esistenza di una terza dimensione, quando una Sfera ha attraversato il suo piano dimensionale, e gli ha parlato. Dal suo punto di vista bidimensionale, quale sarà l’unico modo possibile in cui potrà percepire una sfera 3D? Un punto che cresce e si allarga in un cerchio, che poi comincerà a restringersi fino a tornare a un punto che sparirà. Nessuna descrizione della nascita, della vita e della morte mi ha mai colpito così tanto.
In fondo, è questo che noi percepiamo della realtà: siamo dei punti che crescono, decrescono e scompaiono.
Ma nel mondo a tre dimensioni la sfera continua beatamente la sua vita, e io in qualche modo lo trovo consolatorio, appagante. Il protagonista di Flatlandia finisce in carcere per le sue idee sovversive e verrà etichettato come folle: non possono esistere tre dimensioni!
L’etichetta di folle è stato forse il cambiamento più importante della mia vita. Ho passato quarant’anni a cercare di spiegare come funziono, a giustificarmi, a difendermi, a dimenticare frasi offensive, insinuazioni, a deflettere sguardi sospettosi: adesso ho in mano un foglio con una diagnosi e sono cambiati anche i tempi; le persone come me hanno un nome e forse dal di fuori può sembrare limitante, ma a me ha donato una libertà inconcepibile. Adesso I am what I am come Gloria Gaynor (e Popeye), i miei cambiamenti d’umore, da angoscia improvvisa a euforia in due ore non sono più qualcosa che devo giustificare o provare, non c’è più il tribunale, perché tesoro, guarda, ho una diagnosi.
È stranissimo. Odio qualunque tipo di etichetta, tranne quelle che incollo sui libri in Biblioteca per creare armonia in un microcosmo. Per me incollare centinaia di etichette è una forma di trance meditativa, funziona meglio del valium, posso farlo per ore e ore, spesso i miei colleghi hanno guardato un po’ straniti la mia felicità evidente nel fare un lavoro così ripetitivo. Quello che non possono sapere è il disordine che c’è nel mio cervello, la lotta incessante per trovare un equilibrio nei prossimi dieci minuti: le etichette dei libri e l’etichetta della psichiatria mi aiutano a vivere meglio. Non esprimono verità, spiegano un’organizzazione: etichettare duecento libri vuol dire anche spostarli, ordinarli, metterli in relazione con la realtà, mentale e spaziale, della biblioteca, e io sento intorno a me un ordine che fa respirare.
E se la visione del mondo che si altera, la percezione degli altri che impazzisce sono un disordine orribile, dolorosissimo, disorientante, grazie all’etichetta riesco a conviverci molto meglio di prima. Ora quando arriva un’onda nera penso: «Ecco, è un’onda». Quando sono in alto tra gli spruzzi di schiuma sul mio surf cerebrale penso: «Ecco, è un’onda».
Forse sono costantemente attraversata da una forma di un’altra dimensione, ed è così che si manifesta in me. Per la mia comprensione, in questo mondo, è una sinusoide irregolare, ma chissà, se potessi vedere quattro, cinque dimensioni, che forma avrebbe. Forse una forma di senso. E anche la morte, come sarebbe percepirla come Bill Pilgrim di Mattatoio n. 5, o come il Quadrato ha percepito la magica Sfera?
Cantava David Bowie: «Ch-ch-ch-ch-changes / Turn and face the strange». Girati e affronta la stranezza. Ci dice che guarda le piccole onde cambiare dimensione senza mai lasciare il flusso di calda impermanenza, così i giorni galleggiano attraverso i suoi occhi ma restano uguali. E avverte, e io lo amo:
«And these children that you spit on
As they try to change their worlds
Are immune to your consultations
They’re quite aware of what they’re goin’ through»
A questi ragazzini, a cui sputate addosso mentre cercano di cambiare i loro mondi, non importa del vostro parere, perché loro lo sanno molto bene quello che stanno passando.
Grazie dell’aiuto, e dei consigli, soprattutto dell’affetto: ma il cambiamento è unico per chiunque, niente lezioni per favore, ricordiamoci a vicenda che non è che sia inevitabile, è che proprio coincide col tempo e la vita. Va ricordato spesso, perché certi cambiamenti fanno schifo. Ma ognuno vede diversamente, ognuno inventa strategie, io ho forgiato le mie, come armi, e ho imparato quelle di altri che hanno avuto voglia di raccontarmi, e spiegarmi.
Per questo odio il cambiamento, ma poi lo amo. È l’unico modo di essere libera.
Non è il cambiamento, sono io.
Vive in un condominio affollato e rumoroso. Le sue coinquiline e i suoi coinquilini hanno fatto di tutto nella vita: bibliotecarie, animatrici culturali, speaker alla radio, cantanti, mogli, mariti, amanti, complici… Ora ascolta tutte e tutti e sembra abbia visto, letto e goduto di ogni cosa. Me lei sa che quell’obiettivo non è stato ancora raggiunto e che si trova alla deriva in un punto indeterminato del processo.