Così come ne sono stato testimone

Sergio Rossi | Memorie e cuccioli |

«Questa è la cronaca di quegli avvenimenti, così come ne sono stato testimone. Jack London»

La prima volta che ho letto un fumetto di Bonvi è stato nei primi anni Settanta dello scorso secolo sul “Corriere dei Ragazzi”, dove pubblicava le prime storie di Cattivik, che poi passò al discepolo Silver già all’opera su Lupo Alberto, e soprattutto le strisce delle Sturmtruppen, i soldaten di Cermania che erano nati per la prima edizione del concorso annuale come Migliore striscia del quotidiano, ora scomparso, “Paese Sera” (che non ho mai letto ma aveva un bel logo e una pagina di fumetti con autori come Hugo Pratt, Daniele Panebarco, Quino, addirittura Giorgio Forattini, perché c’è stato un tempo mitologico in cui anche Forattini era giovane e bravo) e che poi diventarono un successo in tutto il mondo, le cita anche Murakami Haruki in Norwegian Wood, e i beniamini di tutti i lettori grandi e piccini tanto che avevo anche il loro diario e i quaderni e le raccolte della collana “Eureka Pocket” dove lessi anche le storie di Asso di Picche di Hugo Pratt & la sua brigata veneziana e Spirit di Will Eisner, tutti stampati male-malissimo e piccini-piccini-picciò, ma questo passava il ben noto convento e quindi ci si adattava. In più quei libretti erano incollati così bene che si sfasciavano già alla seconda lettura, anche al netto della delicatezza che ci potevo mettere alle elementari, e dato che di letture ne ho fatte 2 alla enne, ma è un calcolo per difetto, si può immaginare in che stato fossero quando arrivai alle medie. Non vorrei passare per uno di quelli che dicono che si stava meglio quando si stava peggio, ma a rivedere oggi quello che passavano a noi bambini in quegli anni c’è da domandarsi cosa sia accaduto nel frattempo. È vero che le Sturmtruppen facevano ridere per le parole in finto tedeschen che finivano tutte in -en, un po’ come Eta Beta che mette la p davanti a quasi tutto, per il disegno grottesco, preciso e perfetto di Bonvi, per le espressioni buffe e per tutto quello che volete, ma il perché ebbero questo successo specie tra i bambini rimane un mistero dato che (molto) più della metà della battute erano incomprensibili a chi come me frequentava la scuola dell’obbligo perché citavano esplicitamente romanzi, film, tematiche politiche e antimilitariste, pubblicità per adulti e precisi avvenimenti storici, oltre che essere piene zeppe di riferimenti sessuali più che espliciti, sui quali puntarono i due omonimi film invero bruttarelli a rivederli oggi. Nelle strisce di Bonvi abbondavano infatti prostitute che aspettavano sotto a dei lampioni cantando le strofe di Lilì Marlene, la canzone interpretata da Marlene Dietrich nel 1944 ma che conobbi solo anni e anni dopo perché allo “Zecchino d’oro” non la passavano, chissà come mai, e anche personaggi neanche velatamente omosessuali, come per esempio alcuni colonnelli e capitani di brigata che facevano vestire i soldati con camicie da notte femminili per poi passarci una notte d’amore. Perugia, la città che mi ha dato i natali, all’epoca era un po’ come il Nebraska descritto dal personaggio di Will McAvoy nel serial The Newsroom, scritto da dio, ossia da Aaron Sorkin: come in quello stato americano voti repubblicano perché il primo democratico lo conosci solo all’università, così nella etrusca cittadina conobbi la prima persona dichiaratamente omosessuale solo dopo aver passato i vent’anni perché prima erano solo figure letterarie nei romanzi e nei film, meno nei fumetti a dire il vero. A dire il vero neanche alle superiori conobbi mai qualcuno che lo fosse, il che è impossibile anche solo per il mero calcolo della probabilità. In definitiva ridevo di battute di cui capivo sì e no un quinto dei riferimenti, e sono ottimista, e scritte con un linguaggio che oggi porterebbe Bonvi in galera senza neanche passare dal Via, ma che rimaneva sotto pelle e mi formava, e insieme mi beavo delle altre sue creature, come Nick Carter, creato con Guido de Maria per la trasmissione “Gulp! I fumetti in tivvù” e di cui possedevo (e possiedo ancora) due libri, e Marzolino Tarantola, simpatico giramondo creato sulla falsariga di Saturnino Farandola e anche lui passato in televisione.

L’uomo di Tsushima lo scopro un’estate di fine anni Settanta, tra la quinta elementare e la prima media, quando con mio fratello andiamo alla neonata Biblioteca dei ragazzi, scoperta grazie alla soffiata di qualche amico che ci disse «Lì ci sono dei fumetti!», e tanto ci bastò per armarsi e partire. A dire il vero più che una biblioteca era una scuola prefabbricata che si trovava poco sopra il tennis club che frequentava nostro padre. – ricordo che Perugia è una città tridimensionale quindi le quote altimetriche dei luoghi contano – e al quale ci iscriveva ogni anno ai corsi invernali di tennis, nel mio caso un inutile accanimento terapeutico, ma dove c’era anche una piscina con trampolino dove passavamo l’estate insieme a molti nostri amici. In questa scuola delle anonime anime (per me) sante avevano ricavato due-tre stanze piene di libri per ragazzi con anche dei fumetti tra cui spiccava la raccolta completa del “Corriere dei Ragazzi” che oggi è nella Biblioteca delle Nuvole, la biblioteca di fumetti che ho contribuito a fondare perché qualcosa di buono l’ho anche fatta nella vita. In quelle due-tre stanze ci misi subito casa, e infatti continuai ad andarci da solo anche d’inverno, sempre prima di andare a tennis, perché i volumi del “Corriere dei Ragazzi” non si potevano prendere in prestito, oh rabbia, quindi me li lessi tutti in più tappe, solo che ogni volta che ci andavo dovevo passare per questa via stretta che già il suo nome dice tutto, Via del Bucaccio, infatti è un budello lungo e stretto, che finché è estate e c’è il sole la percorri a occhi chiusi, ma d’inverno scopri essere piena di gradini sconnessi resi scivolosi dall’umidità, lampioni accesi in ordine casuale e mai tutti insieme, e alberi da ogni lato mossi dal vento che io, alto all’epoca un metro e cinquanta scarso, molto scarso, vedevo enormi e minacciosi come quelli che poi ammirerò in Twin Peaks. E quindi, sommando il buio pesto, l’improbabile illuminazione pubblica, il vento, lo stormir di fronde, il presunto rischio di non dare confidenza a sconosciuti che non ho mai incontrato perché giustamente evitavano quella strada scomoda e poco illuminata, la reale paura di cadere a ogni gradino perché erano tutti rotti e la mia capacità di autosuggestionarmi inventandomi storie di mostri che escono da ogni dove, ogni volta che percorrevo quella selva oscura scoprivo sempre nuove fiere e nuovi motivi per farmela sotto. Ma poiché amor vincit omnia, salivo le ardite scale con il cuore in gola per la paura e le scendevo con gli occhi e la testa pieni di quelle meraviglie che avevo appena letto, e chissenefrega se poi a tennis rimanevo scarso come pochi.

Una di queste meraviglie era L’uomo di Tsushima di Bonvi, che presi in prestito più e più volte, e ogni volta che lo aprivo mi incantavo, come accade anche oggi. Tredicesimo volume della collana “Un uomo un’avventura”, era un titolo che non mi era del tutto sconosciuto perché lo vedevo nella quarta di copertina degli “Zagor” che mi prestava il vicino e compagno di scuola e giochi Federico, che déi ctoni e malvagi hanno portato via troppo presto alla sua famiglia. Tutte le storie della collana sono ambientate in un preciso momento storico che viene inquadrato nell’introduzione. All’epoca non si parlava di graphic novel, ma di “fumetto popolare” e “fumetto d’autore”, una dicotomia assurda che tanti lutti addusse al settore e, a rivederla oggi, più nella mente degli operatori del settore che dei lettori dato che nessuno ha ancora capito bene il significato di quelle definizioni. Semplificando con il trinciapollo, i “fumetti popolari” erano quelli dei giornaletti da edicola, come “Tex”, “Zagor” e compagnia, i “fumetti d’autore” erano quelli pubblicati invece nelle riviste e su libro, come le storie di Hugo Pratt e Guido Crepax (sì, all’epoca, prima dell’invenzione del graphic novel, nelle librerie c’erano già i libri a fumetti, anche di storie nate direttamente in volume). A un certo punto Sergio Bonelli, editore di “Tex” e anche creatore di personaggi come “Zagor” e “Mister No”, ne ebbe abbastanza di essere solo quello del “fumetto popolare”, decise di pubblicare anche lui “fumetto d’autore” e quindi varò questa collana dove diede carta bianca agli autori dei personaggi che pubblicava, tipo il grande Gino D’Antonio, e ad “autori-autori” suoi amici come Pratt, che realizzò ben quattro libri, Sergio Toppi (tre), Crepax, Attilio Micheluzzi e Dino Battaglia (due), Guido Buzzelli e appunto Bonvi.

Anni dopo, in un incontro pubblico a Bologna a cui partecipai e poi anche in altri a cui ho assistito, alla sempiterna domanda sul perché pubblicò “Un uomo, un’avventura” e in generale al suo rapporto con il “fumetto d’autore”, Sergio Bonelli rispose che quella collana era stata una delle tante fiche che aveva giocato e perso, senza alcun rimpianto, sul tavolo del fumetto d’autore. La collana fu infatti un insuccesso per vari motivi, quei volumi ne troverò tanti e per tanti anni nelle librerie a metà prezzo per la mia gioia di giovane lettore squattrinato, vuoi perché troppo costosa per l’edicola, vuoi perché almeno metà di quelle storie non era granché, vuoi perché qualunque giocatore sa che al tavolo da gioco è più probabile perdere che vincere e Sergio Bonelli, che tutto era meno che uno sprovveduto al casinò dell’editoria, sapeva in partenza che sul tavolo verde del “fumetto d’autore” avrebbe perso non solo quella di “Un uomo, un’avventura”, ma anche le altre fiche che ha giocato più per questioni di amicizia e per aiutare amici e autori, e ne ha aiutati molti e molto generosamente, perché a lui non interessava vincere, ossia aumentare le vendite, ampliare il mercato e diventare anche un editore di volumi a fumetti, quanto dimostrare la fragilità economica dell’editoria libraria rispetto a quella da edicola che era quella in cui si riconosceva e che ha portato alla sua massima espansione. Non a caso chiudeva spesso la sua risposta dicendo che tutti quelli del “fumetto d’autore” sono poi finiti tutti a lavorare per lui e che la libreria non rendeva e per questo i diritti dei suoi volumi preferiva darli ad altri editori. Allora come oggi mi domando, inutilmente ça va sans dire, se quella di Bonelli non fosse una profezia autodeterminata e se, da quel grande editore che era, avesse giocato quelle fiche con altro spirito, forse la storia del fumetto avrebbe potuto prendere un’altra strada che poi coincide in parte con la situazione attuale, dove le edicole chiudono e i fumetti popolari sbarcano in libreria, ma è, appunto, un pensiero inutile.

Comunque all’epoca non so ancora nulla di tutto questo, come non so nulla di Jack London, il narratore di questa storia che qui Bonvi si diverte a disegnare con la propria faccia, e men che meno della guerra tra Russia e Giappone combattuta all’inizio del XX secolo e qui raccontata con dettagli geopolitici che neanche al liceo mi spiegheranno, come anche della corazzata Potëmkin, degli alberghi di Singapore e di Nossi Bé in Madagascar popolati di inviati speciali e una fauna umana dedita più all’alcol che alla deontologia professionale, e infine dei riti magici a Bahia, in Brasile. Non so nulla ma non mi serve perché Bonvi mi racconta tutte queste cose, pagina dopo pagina, vignetta dopo vignetta, con i dialoghi, i disegni, i flashback, i dettagli, le inquadrature. E tutto in sole 48 pagine che compongono un grande romanzo a fumetti che mi ha fatto sempre pensare quali storie meravigliose avrebbe potuto fare Bonvi se avesse continuato anche su questa strada, anche perché di racconti brevi, fulminanti, inquietanti ne aveva già fatti, ma questo li superava tutti sotto tutti i punti di vista. Forse ha smesso perché, come dice nel finale, «una storia del genere potrebbe essere raccontata solo in un albo a fumetti», e dato che all’epoca il fumetto era considerato meno della pornografia, perché continuare? E come Disney dopo l’insuccesso di Fantasia lasciò la produzione per adulti, forse anche Bonvi si concentrò più che altro sui soldaten di Cermania, lasciandoci orfani di altre storie come questa che hanno mostrato che con il fumetto potevi raccontare tutto e a chiunque, anche a un decenne ignorante altro un metro e cinquanta che, da allora, si è messo alla ricerca di storie come questa.

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