Credo di averlo letto in una sua qualche biografia, un po’ di anni fa. Ma non so citarti la fonte con esattezza, perché non me la ricordo e non ho voglia di fare ricerche: quindi prendi quello che sto per raccontarti nelle prossime righe con beneficio d’inventario.
Allora, quello che mi sembra di ricordare è che in un’intervista del 1951, amnistiato e rientrato in Francia dalla Danimarca, Louis Ferdinand Auguste Destouches, che firmava i suoi romanzi come Louis Ferdinand Céline, mentre afferma che la sua grandezza di scrittore sarà riconosciuta subito dopo la sua morte e che per questo è sicuro di venire sepolto al Père Lachaise, si arrampica sugli specchi, per difendersi dall’accusa di antisemitismo (a causa dei suoi tre famigerati pamphlet degli anni Trenta: Bagatelle per un massacro, La scuola dei cadaveri e Le belle bandiere), e sostiene di non essere stato capito, che i suoi tre pamphlet erano testi di umorismo nero, degni di essere pubblicati da Gallimard. Io mi immaginavo che, trattandosi di testi di «humor noir», e aspirando alla pubblicazione «chez Gallimard», quel simpaticone del Destouches li vedesse bene inseriti nella “serie noire”.
Insomma Céline aspirava da morto a quel prestigio letterario che non gli era stato riconosciuto da vivo. Infatti, se il Père Lachaise è il cimitero più prestigioso di Francia, quello dove sono definitivamente marciti La Fontaine, Molière, Maupassant, Hugo e Sartre, la “serie noire”, pur non essendo la prima (Mondadori inaugurò la sua collana gialla nel 1929), è sicuramente la più prestigiosa collana europea dedicata a quel genere letterario che possiamo definire, non senza approssimazione, poliziesco.
È il 1945 e Marcel Duhamel ha esattamente 45 anni quando, stufo di fare il redattore di un periodico turistico, propone a Gaston Gallimard di pubblicare due romanzi di Peter Cheney il cui protagonista è Lemmy Caution, e che lui ha appena tradotto. Ha pensato persino che potrebbero inaugurare una nuova collana, di cui il suo amico Jacques Prevert ha già trovato il titolo: “serie noire”; e l’altro suo amico, Picasso, ha buttato giù una bozza di copertina. Beh, sai, se il titolo lo ha pensato Prevert e la grafica Picasso, mica puoi rifiutarti di varare una nuova collana che vanta simili padrini.
Già dopo l’uscita dei primi titoli, Raymond Queneau descriverà la grande novità apportata dalla nuova collana, con queste parole: «L’attenzione dell’autore e del lettore non si concentrano più sulla trama, ma sui personaggi e sulle loro psicologie. Il sesso e la violenza hanno sostituito le cervellotiche deduzioni. L’investigatore non raccoglie più indizi, ma scassa il naso dei testimoni a cazzotti. I cattivi sono tutti luridi, sadici e codardi, e le donne hanno tutte gambe incredibili e sanno essere infide e crudeli quanto i protagonisti maschi. »
Però è nel 1948 che la rivoluzione di questa collana arriva al suo compimento, sotto la spinta di Claude Gallimard, figlio di Gaston, che aggiunge il colore giallo alle copertine bianche e nere originali, trasforma la periodicità in una cadenza fissa quattordicinale e dà carta bianca a Duhamel per affiancare agli americani anche autori francesi. Sarà un successo crescente, che conta attualmente più di 2.900 titoli.
«Che il lettore sprovveduto sia avvertito», dichiarerà Duhamel, «i titoli della “serie noire” non si prendono in mano senza pericolo. L’appassionato di enigmi alla Sherlock Holmes rimarrà deluso. E l’ottimista sistematico non ne riceverà conforto. L’immoralità che di solito, in questo genere letterario, viene usata per esaltare la morale convenzionale, qui è raccontata solo per se stessa, per il suo valore estetico, più affascinante di quello dei buoni sentimenti. Lo spirito di questi libri non è mai conformista. Ci sono sbirri più corrotti dei delinquenti a cui danno la caccia, e il detective protagonista non sempre risolve il mistero. Spesso non c’è nessun mistero. Addirittura, alle volte, non c’è nessun detective. E allora? Allora ci sono azione, angoscia, violenza – in ogni forma, anche la più efferata –, pestaggi e massacri. Come nei migliori film, gli stati d’animo vengono tradotti da comportamenti, e i lettori appassionati di letteratura introspettiva dovranno dedicarsi a esercizi inversi. C’è anche l’amore – spesso bestiale –, la passione disordinata e l’odio spietato. Insomma, il nostro obiettivo è togliervi il sonno.»
Devo a Luigi Bernardi, che me li propose agli inizi degli anni Novanta, nella collana “Criminalia Tantum” della Metrolibri, la scoperta di quegli autori francesi che hanno dato forma al genere nero, su tutti Léo Malet e Jean-Patrick Manchette. Ed è stato sempre lui a propormi, nella stessa collana ma continuata con Granata Press, Nicola Calata con il suo Pericle il nero. C’era tutto quello di cui parlava Duhamel in quel romanzo. Lo avrei visto benissimo nella “serie noire” e non capivo perché non se lo stava cagando nessuno.
Pensa: due anni dopo ci finirà eccome nella collana di Gallimard, e diventerà il caso letterario dell’anno. Solo che sulla copertina nera ci stava il vero nome dell’autore: Giuseppe Ferrandino.
Ma cazzo! Ferrandino era lo sceneggiatore di Sera Torbara, personaggio che leggevo su “Orient Express”, e poi di quella incredibile storia che avevo letto a puntate sulla rivista “Nero”, agli inizi degli anni Novanta. Ecco, adesso capivo perché avevo apprezzato così tanto il grottesco realismo di Pericle, perché mentre lo leggevo avevo negli occhi i disegni di Giancarlo Caracuzzo per quel fumetto che Ferrandino, dopo aver smesso di scrivere “Dylan Dog”, aveva provocatoriamente intitolato Storia di Cani. Veramente il personaggio di Mimì, quello di Zampino e tutti quelli che popolano questa storia, si esprimono più attraverso i gesti e i comportamenti, che attraverso i dialoghi. Nessuna introspezione. Pura azione scenica, quasi muta, caratterizzata da gesti paradossali e da atteggiamenti grotteschi. Praticamente una pantomima.
Quando Céline muore, per aneurisma cerebrale, circa dieci anni dopo quell’intervista, e precisamente il primo luglio 1961, lo attendono due beffe postume. Innanzi tutto non ottiene quel riconoscimento per il semplice fatto che poche ore dopo la sua morte, all’alba del 2 luglio, Ernest Hemingway si fa saltare la testa con il suo fucile da caccia. Per giorni il suicidio del grande scrittore americano occuperà le pagine dei quotidiani francesi, relegando Céline a un trafiletto. E, in secondo luogo, nemmeno il suo desiderio di essere sepolto al Pére Lachaise, troverà coronamento. Sapendo che il popolo parigino si sarebbe opposto alla sepoltura di Céline, ritenendolo indegno di un luogo così simbolico, la moglie lo fece seppellire nel cimiterino di Medoun. Una sola delle tre cose che aveva auspicato si realizza: la pubblicazione presso Gallimard. Infatti lo stesso Gaston Gallimard aveva voluto fortemente avere lo scrittore nel suo catalogo. Non i pamphlet, intendiamoci, (quelli erano libri impossibili da maneggiare senza pericolo, e lo sono ancora) ma il nuovo romanzo autobiografico che stava scrivendo, nel quale racconta la propria vita nella Parigi occupata, tra il 1940 e la liberazione nel ’44, poco prima della nascita della “serie noire”. Uscirà nel 1952, con il bellissimo titolo di Féerie pour une autre fois. Quando si troverà a lavorare per Einaudi, all’edizione italiana del libro, sul finire degli anni Ottanta, il poeta Giuseppe Guglielmi avrà la grande intuizione di tradurre Fèerie con Pantomima.
Non fa un cazzo da anni, ma è invecchiato lo stesso. Vive a Milano, e non potrebbe farlo in nessun’altra città italiana. Legge e parla di fumetti dal 1972 (anno in cui ancora non sapeva leggere). Ha una cattiva reputazione, ma non per merito suo. Ama e praticava la boxe, poi si è rotto. Beve tanto in compagnia di gente poco raccomandabile, tipo Paolo con il quale – per colpa di una di quelle bevute – si è ritrovato a curare QUASI.