Non è mai stata la prima cosa che ho saputo, o creduto di sapere, su Fred Buscaglione, quindi c’è voluto un po’ di tempo prima di scoprire che Fred aveva studiato contrabbasso e che nei suoi anni formativi a Torino, prima di elaborare l’assemblaggio di criminale non meglio precisato, nottambulo e tombeur de femmes nel frontman consegnato alla memoria storica, aveva proprio proprio fatto il bassista. Wow. Le biografie non lo dicono ma io penso che da un certo momento in poi non si sia più fatto vedere in pubblico con un contrabbasso in virtù dell’assioma che dà il nome a questa rubrica. Fate un po’ voi. Però, senza dubbio, ci troviamo davanti a un musicista come si deve, non al gangsta-(t)rapper di oggidì, oltre che a un viveur esperto, dotato pure di un notevole discernimento, ma dal destino purtroppo tragico – niente di criminale, solo un incidente all’alba a Roma, alla guida della sua Ford Thunderbird. Non sarà una prova scientifica ma il fatto che Mike Patton nel suo Mondo Cane abbia recuperato Che notte quella notte! mi vuol dire qualcosa, sia in termini di persistenza del fascino musicale che di presa di quel modello di maudit sull’immaginario contemporaneo.
Questa settimana la fantasia sta a zero e «Romanzo Nero» vuol dire solo crimine, storie di mistero, morti e delitti. Speriamo che non ci fossero aspettative troppo più alte. C’entrano qualcosa col bassista da salotto? Direi di no, siamo piuttosto agli antipodi. Come puoi combinare casini degni di nota se non imbracci mai il basso fuori di casa? Al limite sei un criminale comune e la tua inclinazione al reato non si alimenta di connotazioni musicali né di eccessi legati al ruolo di musicante. Potrai fare cose come buttare sacchi di plastica nella raccolta dell’umido compostabile, accendere il riscaldamento fuori dai periodi consentiti, parcheggiare male nella rimessa condominiale, ciancicare il sigaro nell’androne del palazzo (a proposito, non ho ancora capito chi sei ma se ti incontro quando lo fai ti fratturo entrambi gli zigomi a testate, te lo garantisco. Dubito che tu sia un lettore di QUASI ma ti do una chance, l’universo è un posto pieno di sorprese), frequentare pagine e gruppi sui social media che stuprano la ragione e il buon senso, contribuire attivamente alla circolazione di pornografia realmente illegale (e so che siete in tanti ad occuparvene, vi definiscono «insospettabili» quando vi beccano) e così via. Ma, per quanto disgustose e impresentabili o moralmente riprovevoli possano essere le attività a cui vi dedicate nel resto del vostro tempo libero (a meno che non siate criminali professionali con la passione per il basso), non vedo alcuna possibilità di assurgere al livello di bassisti criminali. Voglio dire, magari Anders Breivik aveva una passione per il basso, che ne so, oppure Timothy McVeigh, ma hanno fatto notizia solo per aver sterminato decine o centinaia di persone, non per il Fender Precision che avevano a casa.
In effetti il bassista non lo si nota troppo neppure in termini di fedina penale. Prima di vedere cosa hanno fatto gli altri, i non-lettori mi vorranno fermare pronunciando giusto due parole: «Sid» e «Vicious». Ma non c’è problema, dico io, possiamo stare tranquilli e non considerarlo proprio: Sid non aveva la minima idea di come si suona un basso. Si dice che Lemmy (Kilmister) avesse provato a insegnargli qualcosa, ma non pareva avere né la capacità di attenzione né l’interesse a imparare e Lemmy era veramente un signore paziente e di buon cuore. Sid, invece, aveva nozioni molto precise di come sprofondare nel lago di bitume incendiato delle droghe ultra-pese e della follia (d’altra parte quando è mamma che ti porta l’eroina come vuoi che vada?), ma non era un bassista, non davvero, almeno, e non riteneva utile diventarlo. Quindi, niente Sid.
Ora, passando a esaminare i più eclatanti tra gli altri, incontreremo principalmente cantanti/chitarristi. La quantità di bluesmen neri pare un po’ eccessiva, forse qualcuno ce l’aveva con loro per qualche particolare ragione, o forse erano un gruppo etnico-professionale con qualche determinante marcata che inclinava al crimine, non so. Certo è che pure a Miles Davis mentre si stava fumando una sigaretta fuori dal club francese in cui suonava una sera di fine anni ’50 la polizia fece un sacco di domande. Tra razzismo e svantaggio sociale si creavano le condizioni giuste per un bel po’ di violenza mista a bigottismo in salsa molto southern (RL Burnside, Lead Belly, Son House, Bukka White – non mi ricordo più chi disse al giudice «Se vive o muore è una questione tra lui e il Signore, io gli ho solo sparato in testa», o qualcosa del genere), però è evidente che sono ‘sti cantanti/chitarristi pieni di manie di protagonismo a creare i problemi maggiori. Quando sono bianchi non c’è neppure la scusa del razzismo, magari c’è il loro personale razzismo a rendere il tutto più squallido. Prendiamo Varg Vikernes, creatore del progetto musicale Burzum, una più o meno one man band di black metal norvegese che, pur non avendo mai suonato dal vivo (come noi nei nostri salotti), ha lasciato un segno rilevante nella storia (?) del black metal (o almeno così sostiene Wikipedia). Insomma, Varg (ed è un nome che mi fa venire in mente un personaggio di Norsemen, serie su Netflix che non dovete assolutamente perdervi) ha una passione, come tanti destrorsi patologici, ma non è colpa di Tolkien, per il mondo manicheo de Il Signore degli Anelli, si appassiona al lato oscuro di quella mitografia, sceglie un nome da Lingua Oscura, impasticcia il tutto nella sua testa con le saghe norrene e finisce per incendiare tre chiese e ammazzare a coltellate un suo collega, lui stesso non esattamente una brava personcina. Notevole la gamma di espressioni facciali di Varg al momento della lettura della sua sentenza di condanna al massimo della pena previsto dall’ordinamento norvegese.
Rovistando ancora, tra gente più seria, troviamo Johnny Cash (The Man in Black, appunto), non un bassista, di nuovo, e uno che in galera ci ha più suonato che passato tempo da recluso, però sicuramente un soggetto con una esistenza piuttosto complicata, fitta di dense ombre scure. La sua versione di Hurt dei Nine Inch Nails mi ha sempre convinto di brutto come qualcosa che avrebbe potuto scrivere lui stesso su di sé. Non un romanzo nero ma una delle cose più emotivamente sventranti di sempre tra quelle passate su MTV e nel florilegio della mia raccolta di mp3.
Mick Jagger e Keith Richards un po’ di passaggi giudiziari se li sono fatti, in ragione di una certa assiduità nel consumo smodato di sostanze, ma, pure loro, non hanno passato granché tempo dietro le sbarre (una sola notte nel ’67, tipo). James Brown invece un po’ di andirivieni da e verso la cella l’ha fatto, anche dopo essere diventato famoso: droga, rapine, aggressioni, violenza domestica, cose così. Pure Chuck Berry aveva inclinazioni delinquenziali piuttosto chiare e una preferenza netta per le minorenni. Ancora niente bassisti. Qualche omicidio ce l’abbiamo, tipo Bertrand Cantat che ammazza di botte Marie Trintignant – niente di edificante, decisamente, una storia veramente triste e, di nuovo, nessun bassista coinvolto.
Lasciamo stare queste teste calde – se invece spostiamo la nostra attenzione verso la ricerca di bassisti famosi che sono finiti nelle pagine di nera troviamo vittime più che autori di crimini, o casi agghiaccianti di sfortuna nera come quello di Cliff Burton, primo bassista dei Metallica, morto a ventiquattro anni, schiacciato dal bus sul quale stava dormendo durante la tournée di Master of Puppets in Svezia. Il mezzo finì fuori strada, Burton proiettato fuori dalla cuccetta in cui dormiva – un posto che aveva vinto giocando a carte. Gli altri tutti salvi. Altro incidente stradale quindi, come Buscaglione, ma nella più totale incolpevolezza.
Volete forse qualche altra conferma del fatto che la circolazione stradale è particolarmente nociva per i (giovani) bassisti di talento? Scott LaFaro, poco più che venticinquenne quando muore in un incidente d’auto in un posto chiamato Flint che però non è quello di Michael Moore e dell’acqua al piombo, siamo nello stato di New York. LaFaro ha suonato con Chet Baker, con Stan Getz ed è il bassista del Bill Evans trio con il quale ha appena registrato Sunday at the Village Vanguard e Waltz for Debby. Bill Evans non ne vuole più sapere di suonare per diversi mesi dopo la sua morte.
La ricerca del romanzo nero a sfondo bassistico sta quindi per fallire nel modo più pieno possibile. Meglio non continuare così, troveremmo probabilmente soltanto altre storie di giovani talenti stroncati. Arrendiamoci. Ci resta solo da raccontare, molto in breve, la storia del nume tutelare dell’arte bassistica, quella di John Francis Anthony Pastorius III, per tutti Jaco, unico bassista elettrico nella DownBeat Hall of Fame, genio, metodo e disturbo bipolare, un riferimento ineludibile per chiunque si mette al collo questo strumento. E pure lui una vita stroncata, non per cause stradali ma in modo ben più assurdo.
Rispetto a Pastorius c’è un prima e c’è un dopo. Dopo di lui è apparso chiaro (chiaro, non semplice) come fosse possibile suonare il basso in modi e contesti che, semplicemente, nessuno aveva fin lì considerato possibili. E non stiamo semplicemente parlando di «fusion», non è quello, il termine in sé è più rompiballe che entusiasmante, è più una ricetta distintiva di convergenza tra jazz, funk, R&B, una robusta conoscenza della teoria musicale, un approccio rigoroso allo studio, una sperimentazione coraggiosa sui limiti e sulle capacità dello strumento (il fretless DIY, per esempio) e del musicista (la tecnica sugli armonici, per dirne una). Inoltre, fatto piuttosto eclatante, Jaco abbandonò il posto in cui veniva relegato il bassista, dietro, accanto al batterista, se possibile anche un passetto più indietro. Lui si fece decisamente avanti. Non potevi ignorarlo.
Era anche un personaggio parecchio sopra le righe. Riuscì a farsi ingaggiare dai Weather Report di Joe Zawinul con una giocata che non raccomanderei a nessuno: avvicinò Zawinul dopo un concerto presentandosi come il «il più grande bassista del mondo». La spacconata non gli disse male, Zawinul gli chiese di mandargli un demo e il resto is history. Ma non fu una storia tranquilla, la droga e il disagio mentale non concedettero molto tempo prima di iniziare a incidere in modo pesante: nell’82 arriva una diagnosi di disturbo bipolare, qualche anno dopo il dissesto finanziario e l’esperienza della vita da homeless. Non andò a migliorare. Nell’87 iniziò a infilarsi in risse a caso e a prenderne di brutto – le prove tecniche di un exitus brutale. Dopo aver provato a imbucarsi a un concerto di Santana ed essere stato sbattuto fuori dalla sicurezza, si diresse al Midnight Bottle Club di Wilton Manors dove tentò di entrare con modi non esattamente forbiti – ne scaturì uno scontro con il gestore, un esperto praticante di arti marziali. Pastorius morì vari giorni più tardi per un’emorragia cerebrale.
Epilogo. Ancora un bassista dei Metallica
Il basso più famoso di Pastorius, il cosiddetto «Bass of Doom» , un Fender Jazz Bass ’62 a cui aveva tolto i tasti e ricoperto la tastiera di resina epossidica, venne smarrito/rubato nell’86 e ritrovato solo vent’anni dopo, in un negozio di strumenti musicali. Il proprietario del negozio non volle restituirlo e nella costosa battaglia legale che ne seguì la famiglia di Pastorius ricevette un aiuto sostanziale e decisivo da Robert Trujillo, il più recente bassista dei Metallica, per recuperare lo strumento. A Trujillo si deve anche la produzione, nel 2014, di un documentario sulla vita di Jaco.
Come ricorda Leopardi, si è tramandato il verso di Menandro «muor giovane colui ch’al cielo è caro». Noialtri si spera in primo luogo di non essergli così tanto graditi e, in secondo, quando del tempo è passato e si è effettivamente sicuri di un ridotto gradimento, ci si consola di non essere più giovani e di avere ancora un salotto, un basso e un amplificatore, ancorché poco tempo e una buona dose di mediocrità.
È un percorritore di sentieri interrotti, un professionista dell’amatorialità spinta, un fan della bassa visibilità. Ha studiato amenità umanistiche ma anche il bric-à-brac aziendale. Con il secondo riesce a pagarci i conti. Lettore compulsivo di TS Eliot, Céline, Pynchon, Heller, Vonnegut, PK Dick. Ciclista da strada incidentato, ormai dismesso, curriculum da improbabile sopravvissuto. Quando formarono la band era rimasto solo il basso e quello prese. Nei decenni si è rivelata una non-scelta piena di senso.