Originariamente apparso sul numero di gennaio 2019 di “Linus”.
Odio il lunedì. Non sento il bisogno di montare in cima a un palazzo e aprire il fuoco sui passanti ma, ti giuro, odio il lunedì.
Salgo sul treno che mi porterà in ufficio. È freddo in estate e caldo in inverno. Tanto da rendere evidente l’inadeguatezza di qualsiasi clima e qualsiasi abbigliamento. Ed è pieno di gente che, proprio come me, odia il lunedì. Conquisto a fatica un posto a sedere e cerco di isolarmi nel mio libro o nel mio gioco. Succede, a volte, che qualche parola detta da uno degli altri viaggiatori sbecchi l’inamovibilità della mia concentrazione. Si fa largo nell’isola di silenzio ottenuta con grande difficoltà e guadagna la mia attenzione.
La signora seduta accanto a me ha appena detto una frase che non posso proprio ignorare: «Ti garantisco che mia figlia non è razzista; non lo è proprio per niente». Dopo una tale rincorsa, è lecito aspettarsi una perla di assoluta, infinita, stupidità. Invece il seguito del discorso è deludente: «All’open day, un ragazzo le ha detto che, dopo la laurea, diventerà un’operaia e lei, che non è razzista, è impallidita».
Sorrido. Voleva evidentemente dire «classista». Cerco di tornare alle mie occupazioni ma fallisco miseramente: quella frase ormai mi è entrata dentro e sta avvolgendo attorno a sé tutti i pensieri in un gomitolo di concause.
La signora voleva proprio dire «non sono razzista». Quella locuzione è stata svuotata di senso ed è diventata solo un suono. Bisogna creare un popolo privo di rimorsi per riuscire ad opporre una resistenza becera e ignorante all’aumento del flusso migratorio dalla giovane Africa verso la vecchia Europa. Il professor Stephen Smith, autore di Fuga in Europa, dà quel flusso per certo. Pare che entro il 2050 ne vedremo delle belle e che quella che oggi viene dipinta come un’ondata o un invasione si rivelerà per quello che è: l’inizio di una migrazione inevitabile.
Le razze non sono mai esistite; le classi non esistono più: «non sono razzista» è un ottimo modo per abbracciare il male assoluto simulando umanità.
Siamo invitati a ripetere continuamente quella frase: «non sono razzista ma la loro cultura è diversa dalla nostra»; «non sono razzista ma devono rispettare le nostre regole»; «non sono razzista ma prima gli italiani»; «non sono razzista ma quando è troppo è troppo»… Ah, quanto è banale il male.
Lenny Bruce si muove sul palco con il corpo di Dustin Hoffman e la voce di Gigi Proietti. «C’è qualche lurido negro qui stasera?», chiede Lenny al pubblico imbarazzato. Poi inizia a contare gli appartenenti a popoli ed etnie, mentre la tensione cresce in sala. Ci sono «luridi negri», «giudei usurai», «spaghetti», «spagnoli unti», «greci traditori», «ubriaconi irlandesi vestiti bene», … Quando è chiaro che sta per partire un montante che lo metterà a tacere, Lenny regala al suo pubblico il distillato di un trattato di linguistica:
«E con questo siamo arrivati al punto e cioè che è la repressione di una parola quella che le dà violenza, forza, malvagità. Attenti… Se il presidente Kennedy apparisse in televisione e dicesse: “Vorrei farvi conoscere tutti quanti i negri del mio gabinetto”, e se continuasse a dire negronegronegronegronegro a tutti i negri che vede moromoromoronegronegronegronegro, finché negro non significa niente, mai più… Allora, non vedreste più piangere un bambino di colore di sei anni perché a scuola l’hanno chiamato negro.»
Scrive e parla, da almeno un quarto di secolo e quasi mai a sproposito, di fumetto e illustrazione . Ha imparato a districarsi nella vita, a colpi di karate, crescendo al Lazzaretto di Senago. Nonostante non viva più al Lazzaretto ha mantenuto il pessimo carattere e frequenta ancora gente poco raccomandabile, tipo Boris, con il quale, dopo una serata di quelle che non ti ricordi come sono cominciate, ha deciso di prendersi cura di (Quasi).