L’esordio della conversazione col mio amico P. è stato:
– True Lies, sai, il film di James Cameron.
– Ah sì… se è di Cameron e c’era Jamie Lee Curtis l’avrò visto di sicuro, ma non me lo ricordo…
– È quello dove lei si spoglia per uno sconosciuto che poi è suo marito che finge di essere uno sconosciuto…
– Ah, sì! Ma non mi ricordo niente…
Sono andata a leggere la trama del film. Non l’ho mai visto. È un film di esplosioni. Per quello mi è sfuggito (insieme a innumerevoli altri film) ma mi pareva di averlo visto. Dei film di esplosioni parlano tutti, fanno soldi. Anzi, facevano soldi, un tempo, nelle sale. E quel film aveva bisogno di fare soldi: è stato il primo, nella storia del cinema, a sforare il budget di 100 milioni di dollari. Così nel mio cervello l’associazione di un titolo che avevo sentito nominare, di un regista che conoscevo e di un’attrice che adoro hanno creato quella strana trama del falso ricordo. Che poi era il ricordare di aver dimenticato.
Quando mi imbatto in questi falsi positivi, in questi giochi della mente, mi ingioio. Guardo il mio cervello e gli dico: «Oh, wow, ma sei complicato forte!»
Al mio cervello parlo così, colloquialmente, lo frequento da tanto.
Comunque, P., il film non l’ho visto, ma non stavo mentendo. Non volevo tirarmela. Ero sincera.
Era una menzogna sincera.
Un oggetto fantastico. Un ossimoro.
Oxýmoron è greco ed è, a sua volta, un ossimoro: vuol dire “acutoottuso”, cioè oxýs ‘acuto’ più morós ‘ottuso’ (oh! Sarà per quello che gli americani per dire che uno è un idiota lo chiamano “moron”?). È una figura retorica che amo molto, forse perché sperimento spesso stati d’animo che si possono esprimere solo tramite ossimori, come “lucidamente fuori di testa” o “disperatamente euforica”. Ma c’è anche “il buio luminoso” – che dà sollievo dal sole, spietato nell’illuminare tutto e gettare ombre spesse. O “il male buono”, quello di quando perdi un amico per esempio, contrapposto a quello autodistruttivo, della perdita di senso perché ti molla il fidanzato e sbrocchi. O il mio preferito, felix culpa, errore fortunato, la situazione in cui sbagli e impari qualcosa, o scopri un territorio inesplorato, che può essere anche quello di perdonare se stessi.
Mentire è una cosa strana. Ti porta in un posto complicato, quando, di solito, volevi proprio levarti da un impiccio. Ha delle regole che ogni mentitore apprende pian piano – il singolo dettaglio realistico, l’essenzialità che serve a non dover ricordare troppe cose e evita di contraddirsi, la capacità di guardare l’altro negli occhi, la postura, e in mezzo a questo esercizio ginnico ti rendi conto che per essere credibile devi, in effetti, creare un alter ego, un doppelgänger a cui le cose sono veramente andate così. Il doppio che era veramente in un altro posto, che non ha visto la chiamata, che ha incontrato un collega che non la smetteva più di parlare… almeno, per me funziona così. Ma ho il sospetto che funzioni così per molte persone, e le bugie dopo un po’ vanno in giro da sole, con la tua faccia, e il rischio dell’effetto Frankenstein è alto. Crei dei mostri, e si sa come va a finire, tra senso di colpa e soluzione finale. Ma non potremmo vivere senza mentire, no?
Una volta, in biblioteca, una bambina mi ha detto che non poteva restituire il libro perché glielo aveva mangiato il cane. Ho sorriso, bastava mettere “compiti” al posto di “libro” e la gag delle elementari era perfetta. Invece poi mi ha riportato il volume: era un manuale sull’allevamento dei cuccioli, e ne mancava un angolo, netto, un triangolino spesso 300 pagine, coi segni dei dentini. È stata una coincidenza talmente bella che non le ho neanche chiesto di ricompare il libro. Mi sono limitata a metterlo su una mensola dietro il banco prestiti, e ho usato questo oggetto di poesia involontaria come argomento di conversazione e monito per i ritardatari molte volte.
Altre volte ho perseguitato lettori che mi dicevano che il libro era a casa, no era a casa della sorella, no era a casa della sorella in montagna, e la montagna era sulle Alpi svizzere, e avevano chiuso i passi. Dài, l’hai perso. Dillo. Non c’è la polizia bibliotecaria, come insegna Stephen King nel racconto Il poliziotto della biblioteca – in Four past midnight, del 1990 – c’è solo la snervante ripetitività del disgraziato bibliotecario che periodicamente ti deve chiamare per il ritardo nella restituzione.
Mi viene spontaneo domandarmi quante bugie inutili ho inventato.
Quanto pesano, alla lunga, come un sacco di mattoni idioti.
E i mattoni mi portano a Pablo Neruda, alla poesia Non chiedetemi, No me pregunten, perché a casa di mia zia, scritto a mano su un cartoncino incorniciato – quanto bello sarebbe stato se fosse stato ricamato a punto croce? Invece era pennarello nero su un cartoncino seppia – c’erano quattro versi:
y si oyen ladrar la tristeza
cerca de mi casa, es mentira:
el tiempo claro es el amor,
el tiempo perdido es el llanto.
e se sentite abbaiare la tristezza
vicino alla mia casa mia, è una menzogna:
il tempo limpido è l’amore,
il tempo perduto è il pianto.
Mi domandavo, già da piccola, se fosse vero, o una bugia. Perché piangere doveva essere tempo perso? Piangevo molto, e mica mi sembrava di buttare via il tempo. Non avendo le risorse per ricorrere a una vendetta, piangere era la cosa che mi aiutava a smettere di piangere. E non è un ossimoro, o forse sì: ho scoperto, da grande, che non piangere porta a piangere perennemente dentro, circondati da una «solitudine troppo rumorosa», come direbbe Bohumil Hrabal. Ma anche da bambina mi domandavo se il poeta che aveva scritto quei versi mentisse consapevolmente. Crescendo ho messo anche in dubbio la chiarezza del tempo dell’amore che, ormai sappiamo, provoca nel cervello dell’innamorato uno scombussolamento simile a quello delle persone affette da disturbi ossessivo-compulsivi, per via della riduzione della serotonina, insieme a un’euforia da picco ipomaniacale, perché aumenta la dopamina. Per questo le persone già fragili possono uscire completamente di testa se si innamorano. Che brutto scherzo.
I poeti mentono? MI sembrano gli unici che riescono a toccare la verità, e forse, siccome di verità ce ne sono tante, sembra sempre che stiano mentendo un po’. Ma almeno sanno di non sapere, di camminare, come dice Neruda, «de niebla en niebla», di nebbia in nebbia.
La poesia parla di memoria, e se per T.S. Elliot è in aprile, «the cruellest month», il mese più crudele, che si mescolano «memoria e desiderio», io penso che questo accada sempre, e la memoria, con la sua capacità di raccontare la verità, sia uno strumento sopravvalutato. Neruda chiude la poesia così:
Así, pues, de lo que recuerdo
y de lo que no tengo memoria,
de lo que sé y de lo que supe,
de lo que perdí en el camino
entre tantas cosas perdidas,
de los muertos que no me oyeron
y que tal vez quisieron verme,
mejor no me pregunten nada:
toquen aquí, sobre el chaleco,
y verán cómo me palpita
un saco de piedras oscura.
Quindi di quello che ricordo
e di quel non ricordo,
di quello che so e di quello che ho saputo,
di quello che ho perso per strada
tra tante cose perdute,
dei morti che non mi hanno ascoltato
e che forse volevano vedermi,
meglio non mi chiediate niente:
toccate qui, sul gilet,
e vedrete come mi palpita
un sacco di pietre scure.
Le pietre scure pesano, appunto. Ma perderle da qualche parte, come in quegli incidenti in cui il paziente si risveglia in un candido ospedale americano e non ricorda più nulla, e poi si innamora del medico, sarebbe forse peggio.
Eppure c’è un tempo della rivelazione di qualche verità nascosta. Verità vera per noi, almeno. I sogni, per esempio, se li acchiappiamo quando riapriamo gli occhi a volte portano in dono la scoperta di qualcosa che già sapevamo, ma non sapevamo di sapere.
Cantano gli Arcade Fire in uno dei loro pezzi più belli, Rebellion (lies)
People say that your dreams
Are the only things that save ya
Come on baby in our dreams,
We can live our misbehaviour.
Quindi, se ho capito, traducendo molto liberamente: la gente dice che i sogni sono l’unica cosa che ci salva, dai tesoro, nei nostri sogni possiamo finalmente comportarci male.
Un mio amico psichiatra un giorno mi ha detto che i sogni sono «rutti dell’inconscio». Certo, è un comportamentista, figurati se prende sul serio un sogno in cui in un bagno rosa e stretto sento un ululato che sembra vento ma crescendo d’intensità diventa umano.
Ma gli Arcade Fire qui non parlano di sogni rivelatori, dicono, credo, che dovremmo misbehave, comportarci “male” anche nella vita reale, non allinearci, non credere a tutto, opporci, ribellarci. Cazzo, si intitola Rebellion! «Every time you close your eyes (Lies, lies)», ogni volta che chiudi gli occhi (bugie, bugie): apriamo gli occhi, non cediamo al sonno della coscienza, alla pigrizia, al disinteresse. E mentre ascolti questa canzone, hai voglia di fare la rivoluzione.
O almeno è quello che è successo a me, che durante un concerto di Arcade Fire, anni e anni fa, ho provato l’mdma, per poi scoprire che se invece degli antidepressivi che prendo fossi stata in cura con quelli di vecchia generazione sarei probabilmente morta. Rovinando il concerto a tutti. Invece sono entrata in una zona di benessere e consapevolezza senza limiti, amore cosmico, compassione e gioia, e quando alla fine il cannone ci ha sommersi di una pioggia di striscioline luccicanti io sono rimasta lì, piena di me stessa, piena di mondo sotto quella pioggia scintillante, a ballare piano, amando ogni singolo filo d’erba sotto i miei piedi, ogni singola persona sudata intorno a me: era falso? Era vero?
Io penso fosse diversamente vero, perché è una sensazione che ho provato anche meditando. Me la porto dentro ancora. Stati alterati di coscienza: ma siamo davvero convinti che quello in cui viviamo normalmente, casa lavoro soldi tv dormire, non sia uno stato alterato? Mi dispiace molto che il periodo Trump abbia reso le “verità alternative” qualcosa di deplorevole e ributtante. Tutto, se non si può misurare, può essere diversamente vero. Viviamo contemporaneamente in vari mondi, ma purtroppo se ne attiva solo uno per volta, di solito quello in cui la società, le convenzioni, le mogli e i mariti ci chiedono di abitare. Che peccato.
(Credo che sia per quello che molte droghe sono proibite, o, come gli psichedelici che recentemente l’industria farmaceutica ha riscoperto e intende rivenderci in forma modificata, sono private della componente “fun”. Non sia mai che modi diversi di vedere il mondo si schiudano. Meglio la depressione, quella adesso è universalmente accettata, o quasi, eccerto, difficilmente i depressi, mentre sono depressi, hanno la forza di cambiare il mondo).
Ma qualcosa di vicino alla verità, almeno a una verità personale, c’è. O, viceversa, nel nostro corpo, scatta qualcosa quando pensiamo di mentire. Paul Ekman, psicologo ispiratore, nonché consulente tecnico, della serie Lie to me e del personaggio del dottor Cal Lightman (Tim Roth l’ha interpretato rendendo indimenticabili tre stagioni altrimenti trascurabili) si è dedicato allo studio delle relazioni darwiniane tra microespressioni facciali, gesti, posture e la menzogna. Quante volte a una domanda abbiamo risposto affermativamente scuotendo, contemporaneamente, la testa per dire «no»? Da che l’ho visto nella serie lo noto continuamente, anche quando lo faccio io. E sono convinta di essere sincera, spesso, ma poi mi accorgo di quel gesto, e mi faccio delle domande. La cosa straordinaria è che questi gesti microespressioni eccetera sono completamente involontari e comuni a (tutti) gli esseri umani. I momenti più eccitanti della serie erano le mitragliate di fotografie reali, per lo più di personaggi politici, che riproducevano l’identico gesto del protagonista dell’episodio. Si stringeva nelle spalle perché sapeva di aver torto e si corazzava? Flash, flash, Margareth Thatcher, Nixon, Bush, stessa postura, stessa espressione facciale, che a volte, Ekman illustra, dura un’istante.
Quando dico «No, lo faccio volentieri!» e mi accorgo di fare nonnonno con la testa, mi sento punta da uno spillo. Forse non lo faccio volentieri, forse non dovrei farlo affatto.
È così difficile dire di no.
Per non parlare dei lapsus freudiani. Nomi dimenticati che rivelano sofferenza rispetto a qualcosa di magari accantonato, magari l’omonimia con un bambino bullo di quarant’anni fa, o quella che si è messa col tuo fidanzato dopo che vi siete lasciati. Dire «Adesso che ci siamo tutti possiamo finalmente finire la riunione», esempio trovato in rete, assomiglia a frasi assurde che ho pronunciato effettivamente.
Ma quanta roba non mi dico? Se già penso di mentire, quante verità alternative formano l’oceano in tumulto che percepisco, lateralmente, schiumare dentro di me, molto molto in fondo? Sono acuta o scema? Da cosa mi proteggo mentendo? E quanto rivelano di me le menzogne che dico? A chi sa guardare, a chi mi conosce bene, a me, soprattutto.
Eppure, chi vorrebbe vivere nella verità assoluta e non richiesta?
«Ho avuto una storia con F.». Mio adorato ex marito, perché me l’hai detto? Non era meglio essere più gentile per un po’, magari portarmi dei fiori, o andare in vacanza con me in un posto comodo invece che in una regione selvaggia in cui poi ti prendevi la malaria ed eravamo nel nulla della brousse africana?
«Oggi fai proprio schifo»: chi vorrebbe sentirselo dire, anche quando è vero e ti specchi e vedi che invece che dieci anni di meno dimostri novant’anni di più, e portati male?
«Sono arrabbiata con te»: ecco, no, questa vorrei sentirla. E dirla, di più. Sono arrabbiata. Fortissimo. Rebellion. Lies. Lie to me, mentimi, qualche volta. Se serve, ma a me, e non (solo) a te. A volte il tempo chiaro, della chiarezza, è proprio una forma d’amore.
Questo strano anello si compone di:
- True Lies, film di James Cameron del 1994.
- Stephen King, Quattro dopo la mezzanotte, Sperling & Kupfer, 1999.
- Pablo Neruda, No me pregunten, in Pablo Neruda, Giuseppe Bellini (a cura di), Attraverso l’oscuro splendore: Antologia poetica, Bulzoni editore, 1985.
- Bohumil Hrabal, Una solitudine troppo rumorosa, Einaudi, 2014.
- T. S. Eliot, La terra desolata, è del 1922, l’edizione più recente è delle edizioni ETS, 2018
- Rebellion (Lies) degli Arcade Fire, nona traccia dell’album Funeral del 2004.
- Lie To Me, serie composta da tre stagioni (tra il 2009 e il 2011) creata da Samuel Baum.
Vive in un condominio affollato e rumoroso. Le sue coinquiline e i suoi coinquilini hanno fatto di tutto nella vita: bibliotecarie, animatrici culturali, speaker alla radio, cantanti, mogli, mariti, amanti, complici… Ora ascolta tutte e tutti e sembra abbia visto, letto e goduto di ogni cosa. Me lei sa che quell’obiettivo non è stato ancora raggiunto e che si trova alla deriva in un punto indeterminato del processo.
2 risposte su “Se guardo te, io sono bugiardo”