Ultimamente ho di nuovo voglia di leggere fumetti, e poi di dire cose a una telecamera. Questo mi porta a passare del tempo su YouTube, guardando video di persone che hanno almeno 10 anni meno di me, e che sono lettori appassionatissimi e spesso molto più competenti di me su interi settori del fumetto internazionale.
Nell’ultima settimana c’è stata una piccola ondata di indignazione tra alcuni di questi appassionatissimi di manga e fumetti: stanno attraversando la fase «I fumetti sono belli! Non c’è nessun bisogno di usare altri nomi tipo graphic novel! Le opere hanno una dignità a prescindere dall’etichetta!»
Lo so che noi ci siamo già passati e ripassati, esattamente da questa polemica, tipo ininterrottamente da 15 anni (per tacere della polemica popolare vs. autoriale[i], ché quella va avanti da 50 anni) ma non importa, mi fa piacere vedere che ci sia una generazione di lettori forti dopo la mia che rivendica la specificità del mezzo fumetto.
Magari in maniera non particolarmente strutturata, ma sentono che il fumetto è un medium specifico e potente che non ha bisogno di essere accostato alla letteratura per poter aspirare all’immortalità dell’Opera d’Arte.
Frequento anche i gruppi di fumetti su Facebook, quelli dove ci sono gli autori, i critici e gli appassionati che hanno come minimo la mia età. Lì, nell’ultima settimana, erano molto caldi sulla questione della copertina che “7: Corriere della Sera” ha dedicato a Jospehine Yole Signorelli, in arte Fumettibrutti. Ci si chiede, con grande speranza o grande disillusione, se la fama di alcuni autori/personalità porterà finalmente IL FUMETTO a splendere sfavillante sotto le luci della ribalta. Anche questa è una questione che riaffiora a ogni cambio di marea, almeno dalle prime apparizioni televisive di Gipi.
Qui la necessità di un riconoscimento è più direttamente collegata alla possibilità di un ritorno economico, anche se chi ne parla è di solito molto lontano dai centri economici del settore.
Il termine Graphic Novel e l’entrata del fumetto nei radar della prima serata è stato costruito da un lavoro culturale e di lobby, magari ingenuo e discontinuo, ma che parte almeno venti anni fa dalla Coconino di Igort e prosegue con alcuni episodi marginali ma utili come la prima Becco Giallo e Tunuè, e arriva al lavoro un po’ più aggressivamente pop di Bao. Feltrinelli raccoglie i frutti di questo logorio, ma a me resta il dubbio: sono più le copie che “7: Corriere della Sera” fa vendere al libro di Fumettibrutti o le copie del settimanale vendute per il lancio sulla pagina Instagram di Yole Signorelli?
Nel dubbio gongoliamo nel riconoscimento della grande stampa nazionale, che per non farci mancare niente nell’articolo dichiara «…riduttivo definire i suoi libri graphic novel». Dobbiamo inventarci un nome nuovo.
Negli stessi giorni il “WOW” museo del fumetto di Milano si è visto negare dei contributi ministeriali perché «luogo espositivo di cose prive delle qualità di beni culturali». Pare che poi via tweet Dario Franceschini abbia detto che si sono sbagliati e ora ci pensa lui, ma intanto…
In tutto questo io mi chiedo se quando litighiamo con bookstagrammer che fanno capire tra le righe che i libri sono meglio dei fumetti, stiamo davvero parlando di fumetti e libri. Se quando vogliamo nobilitare IL FUMETTO stiamo parlando di fumetti. Se quando parliamo di beni culturali stiamo parlando di cultura. Io temo che in tutti questi casi stiamo parlando di soldi, o al limite, di prodotti. E i fumetti non sono prodotti.
Per capirsi, il prodotto è quello che compriamo, il fumetto è quello che leggiamo.
Un blocco di fogli di carta, tagliati in un rettangolo con una proporzione vicina a 1,6, stampati su entrambe le facciate e incollati di solito su uno dei lati più lunghi: questo è il prodotto, quello che compriamo.
Le avventure di animali antropomorfi, le lamentele sull’ansia, la descrizione di mondi che non esistono: quello è il fumetto, è quello che leggiamo.
Le due cose sono molto diverse, e se la prima esiste in ogni momento, la seconda esiste solo mentre viene fatta e mentre viene letta. L’oggetto esiste anche se noi lo perdiamo, il fumetto esiste solo in relazione agli esseri umani.
Quando si parla di libri, graphic novel, fumetti, manga e si disquisisce sul loro valore bisogna sempre ricordarsi che non stiamo parlando dell’esperienza di lettura, ma dei prodotti. In particolare se ne parlate con editori, testate generalisti e bookstagrammer (a parte la mia amica @la.redattrice.stanca: la sua onestà intellettuale è probabilmente peggio della mia… fa una vitaccia).
Il valore che si attribuisce al prodotto coincide con il potenziale profitto che se ne può ricavare, in questo senso i libri fanno guadagnare più delle graphic novel, perché hanno un pubblico potenziale più ampio, le graphic novel fanno guadagnare più dei fumetti perché aspirano a un pubblico più ampio e si vendono a prezzi più alti. Il prezzo che si può chiedere per un oggetto non ha più niente a che fare con l’impiego delle risorse necessarie a produrlo, ma è determinato dal tipo di narrazione a cui viene legato, e quindi come si “racconta” il prodotto è fondamentale per farne il prezzo (lo storytelling applicato al marketing come ci insegna, letteralmente alla Holden, Alessandro Baricco). Vorrei porre l’attenzione sulla parola “potenziale”. Tutto questo non è necessariamente vero neanche nel mondo dei soldi, è solo la direzione in cui i grandi gruppi editoriali stanno cercando di spingere la narrazione.
Le classifiche di valore delle esperienze non hanno alcun senso, non ce lo hanno mai avuto, ma abbiamo interiorizzato i principi del libero mercato a tal punto che davvero ci sono persone che pensano che le arti possano essere elencate in ordine, fino ad arrivare alla nona, che pare sia proprio il fumetto. O forse era la televisione? Boh, io intanto dico che la dodicesima è YouTube. «Ma tu fai lo Youtuber? Noo! Sono un esponente della dodicesima arte!»
Questa cosa di inventarsi gerarchie dei prodotti non è nuova, e non ha necessariamente a che fare con opere artistiche, ma l’Arte non ne è esclusa, anzi, è sempre stata usata come simbolo del potere: politico, religioso, economico, militare.
Visto che ora il mercato funziona facendoci credere che siamo tutti ricchi, abbiamo livelli diversi di status a cui possiamo aspirare economicamente e culturalmente e la gerarchia degli scaffali è un ottimo modo per farci sentire perennemente in-soddisfatti. Siamo un po’ meglio di quelli che prendono i prodotti dello scaffale sotto, e possiamo invidiare e dare degli snob a quelli che comprano dallo scaffale sopra il nostro, ma lavorare di più per potercelo permettere.
La battaglia tra i vari livelli è funzionale solo al mantenimento delle gerarchie. E quando cerchiamo di difendere un medium al quale siamo affezionati spesso invece di parlare delle opere che ci hanno emozionato ci ritroviamo, inconsapevoli, a parlare di soldi. Dei possibili profitti di aziende di cui non abbiamo neanche un’azione.
Parliamo veramente di fumetti (videogiochi, cinema, narrativa, teatro…) quando parliamo dell’esperienza di fruizione, dei ricordi, della vita che diamo alle opere facendoci attraversare, e questo non si può mettere in una gerarchia. Ogni esperienza è unica e, se siamo pronti a cambiare, aggiunge un pezzettino della nostra coscienza, facendoci diventare quello che siamo. Questo ha a che vedere con la nostra predisposizione molto più che con l’opera: ci sono persone che non capiscono niente della vita leggendo i Demòni di Dostoevskij e altre che hanno epifanie illuminanti guardando “il Grande Fratello Vip”. Quanto sei pronto a mettere in discussione te stesso è molto più importante di quello che leggi, guardi e ascolti.
Ricordiamoci sempre che quando ci preoccupiamo di nobilitare le cose che ci piacciono litigando on line non stiamo parlando del gusto di quello che ci piace, ma dello scaffale su cui è appoggiata la confezione.
– Cosa posso farci se i ricchi hanno buon gusto?
Estratto da “Intro (Can’t Breathe)” ft. Dax contenuto nell’album “Riot” di Izi
– I ricchi non hanno buon gusto. Ti pagano perché tu ce l’abbia per loro. E non ti ingaggiano per il tuo talento, ti ingaggiano perché attenui il loro senso di colpa. Ti usano, Diеgo, e tu sei troppo permaloso per vederlo.
[i] Vi consiglio di leggere l’articolo di Michele Ginevra sul fumetto popolare, che è stato pubblicato poco prima della querelle Fumettibrutti e che contestualizza in maniera puntuale e dà dei bellissimi spunti su una delle nostre polemiche preferite: Popolare vs. Autoriale.
Una risposta su “I Libri sono meglio delle Graphic Novel che sono meglio dei Fumetti”
Qualsiasi
Signor Trinchero, ricordo il suo “Un ragazzo parte per un viaggio…” come una delle cose a fumetti più belle che abbia letto. Ma che ci fa qui a fare il critico di costume? Corra a scrivere fumetti!