Pioggia e vento consumano la montagna e, con più o meno violenza, ne sgretolano le pareti fino a farla partorire. I massi più grandi attratti dalla gravità cadono subito al suolo mentre i frammenti più piccoli vengono sballottati dalla danza dell’aria. Si fatica a seguirli intanto che precipitano a valle. Si notano alcune pietre indugiare alla base del traliccio dell’Enel, altre trovare tregua depositandosi sul tetto di una casa e, soltanto una di loro, per un gioco di coincidenze e rimbalzi tra le tegole, continuare il viaggio rotolando nel cortile, di fianco a una bicicletta.
Tutto, nascendo, occupa uno spazio. Ogni cosa ha origine per un motivo. Ogni individuo nasce con una destinazione sociale. Rifletto, passeggiando nel quartiere, mentre trascino a calci una piccola pietra. E più proseguo e più non posso fare a meno di credere che sia proprio quell’unica pietra caduta dal tetto quella che sto calciando. L’asfalto non è di sicuro il suo primigenio contesto, mi dico. E se non fosse stata una coincidenza, ma una sua scelta, quella di dissociarsi dal gruppo? Se avesse sacrificato il senso di protezione che deriva dal mimetizzarsi nel branco in favore di una sua libera espressione? Così non resisto, mi inchino, e decido di raccoglierla. La osservo da vicino e studio l’insignificante in una fisicità trascurabile. Ho tra le dita un esemplare qualsiasi, un sasso che non ha nessuna originalità. Però l’ho scelto io, così avrà una collocazione di prestigio meritandosi i suoi attimi di celebrità. So bene come funziona, ci vuole un po’ di maestria e qualche autentica bugia: il nulla ha solo bisogno di essere ben raccontato.
Non faccio in tempo a sognarne l’ascesa sociale che sento una giovanissima voce provenire dalle mie spalle. «Ehi!», così mi giro. «Mi spiace, signora. Quella pietra è mia.», continua il bimbo strappandomela subito dalle mani e, con una pedalata veloce, se ne va via.