Calcio di punizione indiretto

Mabel Morri | Play du jour |

Sono una testa calda.
Pensavo di migliorare, invece con l’età sono pure peggiorata.
Il primo cartellino rosso che un arbitro mi ha sventolato in faccia è stato una domenica mite di aprile del secolo scorso.
Il primo di una lunga serie, andrebbe aggiunto.

Nel walkman la musicassetta dei Joy Division gira a manetta. No love lost mi spacca le orecchie mentre pedalo sulla bicicletta per raggiungere il campo: uno di quelli di terra e polvere, tanto amati e odiati, di quelli che lasciano bianchi gli scarpini e dei tanti buchini dei tacchetti a creare geometrie e scie pazze. Uno dei tanti di tante parrocchie, tutte simili: parcheggio, spogliatoi, rettangolo di gioco, l’erba era un lusso che la curia barattava volentieri per l’illuminazione e se c’erano i fari l’affitto del campo diventava decisamente vantaggioso per le casse dei fedeli. Ai piedi di un campanile che suonava quella domenica, come suonava l’ultima volta che, da adulta, ci misi piede in una delle esperienze più terribili che ricordi, abbracciando compagni di liceo dalle tempie imbiancate e salutando, dentro una piccolissima bara bianca, il figlio di uno di loro, di appena due giorni di vita.
Di tante assonanze nella vita, proprio quella campana, in un giorno di sole sempre di aprile, sarebbe rimasta a scandire il ticchettio del tempo, quello troppo breve di un bambino e quello dell’orologio al polso di un arbitro.
La partita era di importanza assoluta: un pareggio ci avrebbe condannato al secondo posto, la vittoria avrebbe portato al primato e al titolo, targhette o pezzi di carta avvolti in un nastro di finto raso che in ogni caso non avremmo mai ricevuto tra le mani. Il perché andava chiesto al prete, misteri da oratorio, tra gli altri.
A ogni modo ero carichissima.
Ma la situazione era stagnante: ci si dilungava in un pareggio snervante.
Nella squadra avversaria avevano schierato una ragazzetta che correva come una gazzella, era talmente veloce con quelle lunghe leve che arrivava per prima su qualunque pallone. Ma com’era uso a quei tempi, per fare numero ci si infilava anche il garzone del lattaio che passava per caso da lì, per cui ogni volta che quella scattava pensavo alla scena con la quale l’avevano arruolata in squadra: «oh, conosco una che corre veloce come un fuso»; «fantastico!», «chiamala che la facciamo giocare!, tanto non serve che sappia cosa sia un pallone». E infatti non lo sapeva, se era la prima che ci arrivava sopra era anche la prima che lo lisciava clamorosamente rendendo il nostro recupero più semplice.
L’arbitro era un deficiente: non faceva altro che guardare le gambe di noi altre o le tette, per cui mantenermi calma non era proprio facilissimo.
Gli arbitri: sono quelli che ricevono forse i peggiori insulti dalle tribune, che siano di cemento in uno stadio di provincia o che siano numerate e dalle poltroncine rosse di San Siro. Sono quelli che, in quegli stessi campi di provincia, trovano le loro Polo del 1998, in prestito della nonna, con le fiancate rigate o con le gomme bucate. Le Polo con le quali si andava in discoteca, a camporella, a bere una birra con gli amici. Ho visto giovani che pur di salvare le proprie autovetture o quelle della nonna le lasciavano lontano, parcheggiate magari davanti alla fabbrica di scarpe dietro al centro sportivo e si incamminavano nel buio, lungo strade pericolosissime a fianco di coltivazioni brinate.

Fosse stata la scena di un film, la stessa intro di No love lost avrebbe accompagnato me e le altre giocatrici al rallentatore, tra capelli grondanti e vari modi poco femminili di asciugarsi il sudore, in azioni di gioco più o meno epiche, tra scivolate, espressioni ringhianti, urla e, presumibilmente, sputi.
Ma rimaneva sul pareggio.
Poi, all’improvviso, l’occasione: mi fanno fallo appena fuori dall’area, uno stupido sgambetto. Non si discute nemmeno, recupero il pallone, me lo sistemo ben bene e lo calcio io, punto.
Ho sempre pensato che se si ama qualcosa, se ne ama qualunque aspetto. Per cui, la me stessa ragazzina che amava il calcio si incuriosiva anche per quella strana specie di esseri viventi chiamati arbitri: adoravo le gestualità del guardalinee, le bandierine a quadri arancioni e gialle sventolate per un fuorigioco o stese per una sostituzione, così come l’imperiosità del fischio, il braccio teso per l’inizio della partita e quello per un cartellino mostrato a una giocatrice. Ecco perché mi ero studiata anche il regolamento, non fosse mai che mi lamentassi di qualcosa e non fossi nel giusto.
Sono solo in attesa del fischio, che quando arriva scatto nella mia brevissima rincorsa e calcio.
Curioso che una come me che ha sempre pensato, erroneamente, di essere fuori dagli schemi, genio e sregolatezza, dovesse rimanerci, dentro agli schemi, con regole e disciplina che il calcio impone. Erroneamente, ché il giro che si è fatto è quello per cui «Mai come i nostri genitori!», e poi i fine settimana sono la spesa e la le pulizie, ci rincuora l’idea di poter vedere crescere i nostri nipoti, siamo felici se lo sono loro, li incitiamo nelle cose che fanno, che sia un concorso di botanica o una lezione di capoeira, iniziamo a desiderare il sabato sera (e partita) a casa e l’invecchiare con la persona che ci ha messo l’anello al dito.
Ma come?, mi domanda la me stessa che mi guarda allo specchio, anche nei disegni fai la stessa cosa, un bordo non lo rispetti mai, le misure sono sempre infallibilmente sbagliate, sicuramente non canoniche, fai come quando stavi sulla fascia: quell’attimo secco, quel nanosecondo prima che il pallone oltrepassi la linea laterale, perdendola definitivamente, e invece TAC!, colpetto di punta che devia la palla facendo perdere il tempo al terzino nel suo intervento difensivo.
Ma come, continua a dirmi quella me stessa con cui continuerò a fare i conti fino alla fine dei miei giorni, non eri tu quella che citava Neal Cassady alla guida di un auto senza mani e senza guardare, a una velocità assurda nelle larghe praterie statunitensi che diceva «La vita è adesso e adesso è tutto quello che abbiamo»? Beata gioventù, l’illusione dell’immortalità è prerogativa dei giovani e, come tanti, l’ho vista passare anche io sulla mia pelle. Io che guardavo Recoba, Recoba più di Maradona, perché gente come Maradona, Pantani, Valentino Rossi, Alberto Tomba, Cristiano Ronaldo anche se non li hai mai visti, sai chi sono, sono dèi intoccabili, stanno lassù, e a toccare gli dèi si rischia di bruciarsi, invece Recoba era terreno, era uno che come me si svegliava al mattino e aveva voglia oppure no.
Eppure il regolamento me l’ero comunque studiato, perché si può essere anche sregolati ma la conoscenza è comunque un valore aggiunto. Come il talento: il talento serve solo a difendersi da chi dice che essere arrivati da qualche parte, in cima magari, sia solo una questione di culo. Aiuta, certo, lo diceva anche Sacchi nella sua teoria delle tre grandi C: il club (e i suoi Campioni), la conoscenza e «il bus de cul», dicendola alla romagnola, ma poi bisogna dimostrare che a stare lì ci si sa stare, e allora arriva il talento.

Fino al 2013 i pochi film che raccontavano varie situazioni nelle quali l’arbitro era protagonista erano commedie nemmeno troppo velatamente erotiche come poteva essere l’erotismo degli anni ‘70, gli stessi film sul calcio erano macchiette, specchi dei tempi di un’Italia e di un mondo del pallone che aveva nelle scommesse la sua anima marcia.
Non ne è esente nemmeno il film omonino del 2013, L’arbitro appunto, diretto da Paolo Zucca, girato in un elegante bianco e nero e recitato da uno Stefano Accorsi decisamente ispirato.
È un film nel quale il calcio diventa la soluzione a faide fuori dal campo, simbolicamente specchio della vita, come se un rigore potesse cambiarla, questa vita.
Nella memoria, certamente lo è stato quello di Fabio Grosso nella finale del Mondiale 2006, sotto il cielo di Berlino. Ma chi era Fabio Grosso quell’anno? Un semplice terzino che, in forma strepitosa, aveva disputato una stagione straordinaria, condizione conservata per tutto il periodo del Mondiale. Non era il cosiddetto “campione”, quello che si aspetta e di cui si riempiono i titoli dei giornali, ma un buonissimo innesto che in quella squadra, sì di Campioni, faceva la sua figura e, anzi, proprio per quella condizione fisica e mentale, era il jolly che nessuno si sarebbe aspettato. Gli riusciva tutto: il primo gol nella semifinale contro la Germania e il rigore nella finale che lo avrebbe consegnato alla Storia.

Il pallone appena calciato passa tra l’esterno della barriera, posizionata male, e il primo palo che nessuno difendeva. La metto lì, nell’unico spazio possibile per prospettiva, angolazione, potenza. Non è un gesto tecnico di quelli da filmati su YouTube, che peraltro non esisteva all’epoca, con magari una musica stunz stunz stunz a corredo, piuttosto lo definirei furbo, io che furba non lo sono stata mai.
Io festeggio, le compagne festeggiano, l’allenatore festeggia, l’arbitro convalida. Poi ci ripensa, e fischia. Fischia il calcio di rinvio e il gol annullato. No, dice alle proteste, è una punizione indiretta.
Rabbia, nel film Inside out quando gli va a fuoco la testa, mi fa un baffo.
Vado verso l’arbitro, gli chiedo quale regolamento abbia letto, chiaramente non mi esimo da commenti sarcastici, «forse lo hai letto nelle patatine», «forse la licenza arbitrale l’hai trovata per strada» insomma, cosine poco eleganti, fino a interrogarlo su che tipo di punizione doveva essere battuta per il fallo su di me commesso.
Lo infamo, impietosamente: «era gioco pericoloso? c’è stato un ostacolo senza contatto fisico? il portiere ha perso tempo (considerato che era in porta?)? NO!», urlo, «quindi era calcio di punizione diretto! che comprende il fallo su sgambetto! e io che cosa ho appena ricevuto come fallo?!?»
La tiriamo così lunga che intorno iniziano ad annoiarsi, c’è già gente che si organizza per il pomeriggio: «sala giochi o cinema?», sento dire da una delle mie compagne a un’avversaria.
L’arbitro è talmente confuso a quel punto che si arrabbia più per averlo smerdato davanti a tutti, lui reo di non conoscere il regolamento, e mi sbatte fuori senza pensarci: rosso diretto, dito puntato verso l’uscita del campo.
I vaffanculo che gli rivolgo sono un infinito turpiloquio che ancora, da qualche parte, nella memoria, non ho smesso di dire.

In Milan – Roma Femminile nell’anticipo di domenica 15 novembre 2020, prima del fallo da rigore poi segnato da Valentina Giacinti, la portiera giallorossa Rachele Baldi tocca due volte il pallone su rimessa dal fondo: è fallo antisportivo, rosso diretto quindi espulsione e calcio di punizione a due in area. Persino il commentatore di Sky Sport confessa della regola di certo poco fischiata ma in quello specifico caso correttissima, elogiando l’arbitro per la decisione non certo popolare.
Episodio chiaramente diverso dal mio che era fuori area, ma che rende chiara la dinamica della regola 12 nella sua estensione nella 13.
Alla fine è pareggio, e quindi perdiamo.
C’è un bellissimo cielo azzurro a quel punto.
Ho ancora i capelli bagnati dopo la doccia e penso a tutto quel campionato lottato fino all’ultimo, e così inutile.

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