Per riflettere su un pezzo che devo scrivere, di solito mi siedo al tavolo della cucina, mi sistemo davanti carta e penna, stappo una bottiglia di rosso – preferibilmente un taglio bordolese – me ne verso un abbondante bicchiere, accendo la radio e, lasciandola come sottofondo, comincio a rimuginare alla ricerca di una cazzo di idea.
Capita spesso, forse troppo, che finisca la bottiglia prima di averla trovata, quella cazzo d’idea, e ormai è tardi, c’è da preparare la cena con tutto il casino che ne consegue… sai quelle robe tipo attardarsi in chiacchiere a finire la seconda bottiglia – mica vorrai cenare ad acqua, vero? – ,lavare i piatti, buttare la ruvera, portare giù il cane che rompe e allora ciao, al pezzo da scrivere ci pensiamo domani. Con il tuo socio che ti odia, che il pezzo va lunedì ed è già quasi domenica.
Vabbè. Stavolta però non è andata così. Ti dicevo, ho acceso la radio e quasi mi andava di traverso il sorso di bordolese. È morto Maradona.
Cazzo!
Lo sai, no?, come funziona in questi attimi epifanici, che la memoria corre al momento fondativo del mito che ti sei costruito attorno a quel nome quasi magico.
8 giugno 1990. Non sto a raccontarti come ho avuto il biglietto per la partita inaugurale dei mondiali e perché ci sono andato, a me che non me ne frega niente di nessuno sport, ma sono lì, in curva. A disagio tra spettatori per lo più milanisti, tendenzialmente razzisti che non risparmiano battute ignoranti sui giocatori del Camerun, ma che si ritrovano uniti a tifare per una squadra che disprezzano contro un solo individuo: Diego Armando Maradona. La gente che mi circonda, sostanzialmente razzista (lo sento dalle battute sui buana), tiferebbero sicuro per la bianca Argentina contro la squadra dei negri, se in quella cazzo di squadra non giocasse l’uomo che odiano di più al mondo, quello che meno di un mese prima ha portato il Napoli a soffiargli lo scudetto.
Lo ammetto, sono uno stronzo. Non potendo spalmare con il napalm la curva in cui sto, mi godo la duplice sofferenza di questa gente, che deve vivere come propria l’euforia dei tifosi di una squadra che disprezzano contro quella dei tifosi di una che odiano.
È durante questa partita che capisco la grandezza di quel piccolo argentino. Le cronache te la raccontano come una partita senza storia, con i campioni in carica assolutamente sottotono e quel gol miracoloso di Francois Omam-Biyik, che dà la vittoria al Camerun. Ma nessuno ti racconta che l’Argentina giocava con tutto lo stadio contro, a parte la sparuta rappresentanza delle due nazioni in campo, gli spettatori erano tutti milanisti. Io c’ero, lo so.
Ricordo un momento in cui Maradona si butta a terra e invoca il rigore facendo una sceneggiata che i capricci di un bambino viziato al confronto erano niente. Lo stadio intero, consapevole della finzione, lo fischia, ma lui – a differenza di qualsiasi persona che si sarebbe sentita scoperta nella propria finzione – sembra non risentirne, e va avanti con la sua pantomima. Il rigore non fu concesso, ma non è questo il punto. Il punto sono i capricci. Mentre dal mio osservatorio privilegiato di spettatore indifferente alla sorte delle due squadre, guardavo quell’uomo, che convogliava su di sé tutto quel sentimento (negativo, ma pur sempre sentimento), fare i capricci mi veniva in mente una storia di Jules Feiffer: Tantrum. Che in italiano significa, appunto, capricci. Con il protagonista che, stanco delle proprie responsabilità, fa marcia indietro e, dopo un capriccio epocale, torna all’età infantile.
Non lo so. Non ho mai capito il finale di quella storia. Non capisco se Feiffer condivida la scelta del suo personaggio di scappare in quella specie di ritirata a metà, o lo disprezzi. Lo descrive come un idiota perennemente deluso in quel viaggio a ritroso ma lo fa marciare verso un radioso avvenire nel finale.
Dopo il suo capriccio epocale, invece, Maradona si rialzava, deluso dal non avere ottenuto quello che voleva: il rigore, e riprendeva a giocare, esattamente da dove si era interrotto, senza aver fatto un passo indietro. Nemmeno per prendere la rincorsa.
Lo so. Questa frase l’hai letta su Le straordinarie avventure di Penthotal di Andrea Pazienza. E so anche che sai che non è sua. Lui la rappresenta come scritta su un muro nella Bologna del ’77. C’è chi ti ha raccontato che è una frase di Che Guevara che allora conoscevano tutti. Sarebbe bello chiudere qui questa pantomima, aperta con la notizia della morte di un grande argentino, citando una frase a effetto di un argentino ancora più grande. Ma quella frase non è del Che.
È di Fidel Castro, che la dice in un bellissimo discorso del 1961: «Al pueblo lo que le interesa es que la Revolución siga adelante sin perder un minuto, que siga adelante sin dar un solo paso atrás ni para coger impulso». Interesse del popolo è che la Rivoluzione si realizzi senza perdere un minuto, che vada avanti senza fare un passo indietro, nemmeno per prendere la rincorsa.
Ecco. Lo so. Questo finale lo capisco molto meglio di quello di Tantrum. Forse perché in realtà, è un inizio.
Non fa un cazzo da anni, ma è invecchiato lo stesso. Vive a Milano, e non potrebbe farlo in nessun’altra città italiana. Legge e parla di fumetti dal 1972 (anno in cui ancora non sapeva leggere). Ha una cattiva reputazione, ma non per merito suo. Ama e praticava la boxe, poi si è rotto. Beve tanto in compagnia di gente poco raccomandabile, tipo Paolo con il quale – per colpa di una di quelle bevute – si è ritrovato a curare QUASI.