Questa vita preziosa

Arabella Strange | Rorschach |

Quest’anno, a causa delle restrizioni imposte dall’epidemia in corso, la festa di autofinanziamento della radio indipendente con cui collaboro da moltissimi anni non si è potuta fare. È un evento enorme, a cui ogni estate partecipano decine di migliaia di persone, tutte diverse. L’emittente è dichiaratamente comunista ma un anno, facendo un sondaggio, abbiamo scoperto quanti giovani leghisti ci vengono, e non rompono neanche i coglioni, per dire, si bevono le loro birre, ascoltano i concerti, mangiano la pizza… Sono quasi trent’anni che la festa consente alla radio di funzionare, senza pubblicità di alcun tipo, e quest’anno, per la prima volta, ad agosto i circa 800 volontari che ci lavorano hanno fatto le vacanze, un po’ straniti, un po’ sollevati – perché è un lavoro impegnativo reggere un festival di quasi tre settimane dalle sei di sera alle quattro del mattino – ma anche molto in ansia. Se nel 2021 non si potrà fare la festa, la radio non potrà sopravvivere. Per tutto il mese di agosto, ogni giorno pensavo: «Ma come mai non sono giù, nella spianata, dentro la libreria, a vagare per stand e bancarelle salutando tutta la gente che conosco, cos’è successo? Come è possibile?». E ieri sera quel virus spinoso, che sembra disegnato da Pendleton Ward, si è portato via uno dei volontari della brigata della pizzeria, uno che da vent’anni salutavo, a cui sorridevo, con cui scambiavo due battute, e soprattutto condividevo un progetto, un amore. Sono ancora intontita. Quest’anno è stato come stare su un autobus a lunga percorrenza che di colpo, in autostrada, fa un’inversione a U. Ti spaventi, ti viene da vomitare, pensi: «Adesso facciamo un frontale, addio.»
E poi ti domandi: «ma chi guida?»

Non riesco a non essere personale, in quello che scrivo. Conosco solo me stessa, e so che quel che so del mondo dipende da quel che guardo, ascolto o, a volte, subisco, come quando scoppia un’epidemia, per esempio. Adesso chiusa per la seconda volta in casa, finita la fase eroica, so solo come sto io: distrutta, senza forze, confusa. Ma lo scrivo perché so che siamo in tantissimi a soffrire, qualcuno inventa dei modi per non affondare in questa fase Produci-Consuma-Crepa, qualcun altro ha meno strumenti, meno immaginazione, o semplicemente non ha più i soldi per pagare le bollette. Mia sorella, farmacista, mi dice che non ha mai venduto così tante benzodiazepine. Siamo fragili, e farci i conti, senza il supporto di tante ritualità che ritenevamo scontate, è difficilissimo. Ho la sensazione che chi ci governa stia sottovalutando le risorse che le persone dotate di più immaginazione degli altri potrebbero fornire, per progettare qualcosa che assomigli più alla vita, non dico a quella di prima, mi riferisco a quel contenitore di relazioni, idee, sogni, scambi, progetti che fa sì che non decidiamo di smettere. Mi domando quando sapremo in quanti hanno deciso di dare forfait in questi mesi. Sarà un bilancio di guerra? In modo naïve, dico che nessuno sta pensando all’anima, allo spirito delle persone. Alla nostra umanità, che non è mica solo una definizione biologica.

Mentre scrivo ascolto un pezzo dell’anno scorso dei Sundara Karma, A song for my future self, che dura 3’32”. Siccome scrivere richiede più tempo che leggere, probabilmente a questo punto l’ho già ascoltata più di dieci volte. Karma è una delle parole più travisate della storia, significa azione, e in sanscrito sundara karma significa azione nobile , tipo «Fa’ la cosa giusta». Per fortuna dall’oriente arriva una forma di pensiero non duale, e quindi non pensiamo al Do the Right Thing del film di Spike Lee, ma piuttosto alla ricerca costante di un comportamento appropriato. In questi giorni ho pensato molto, durante la polemica contro la frase offensiva di Scozzari sui fumetti che non gli piacciono di “un/una transessuale”. E forse il pensiero che mi sono formata è: posto che preferisco, sundara karma style, giudicare non le persone ma le loro azioni, ho bisogno di dire due cose fortissimo. La prima è che: Basta! L’inversione a U c’è stata, certi termini non sono politicamente corretti, sono umanamente corretti. Troia, frocio, mongoloide: davvero, basta. Dietro a ogni termine ci sono persone, e sono persone che si sono rotte i coglioni di essere chiamate in modo spregiativo.
La seconda è: attaccare una persona, invece che per quello che fa o dice, per quel che è, è un artificio retorico da pezzenti. I tempi sono cambiati, una donna transessuale è una donna. Una persona. E il diritto a non essere attaccata, subdolamente, non per il suo karma, le sue azioni, ma per la sua identità, anzi, per un aspetto della sua identità, non è solo un suo diritto, è anche mio. Se vuoi dirmi, poniamo, che scrivo di merda, non dirmi che sono «una malata di mente che scrive di merda». È odioso, è stupido. Non c’entra. È nel tuo diritto dirmi che scrivo male, ma il resto è gratuito. E se un’altra persona dice che il tuo attacco è odioso, patetico, doloroso e fuori tempo massimo, bene, mi fa piacere. Lo dico anch’io.

I Sundara karma stanno cantando ancora, e per la trentesima volta sento: «Sunlight just ain’t getting in / Did you miss a right hand turn? / So it’s harder to be loved when you love suffering.»
«La luce del sole non arriva, mi sono perso una svolta a destra? È più difficile essere amato quando ami stare male». È una canzone spietata, che parla di passato e futuro, e «love soffering» fatico a tradurlo. È una cosa che ti viene detta mille mille volte quando non sei neurotipico. Come se accettare e guardare il dolore che viene da dentro fosse una forma di pigrizia, di egocentrismo. E «Did you miss a right hand turn?» si riferisce alla regola per cui, in molti stati americani, per evitare un semaforo rosso puoi scegliere di svoltare a destra. È una soluzione interessante, che ti consente di non perdere completamente la direzione. Non è un’inversione a U, è meno drammatico, ma quante volte si può svoltare a destra senza finire altrove? E alla fine, a forza di girare a destra, gli angoli ti porteranno, come in un labirinto, al punto di partenza.

Come l’Uroboro, che è la prima parola che mi è venuta in mente al suono di “U”. È un serpente che si divora la coda, rigenerandosi continuamente. Un po’ come un LP che gira sul piatto, Lo si trova già 3.500 anni fa nel Ru nu peret em herul, il Libro dei morti egizio. Letteralmente si chiama Libro per uscire al giorno, Libro per emergere dalla luce: è una raccolta di formule magiche e religiose per proteggere e aiutare la persona defunta nel suo pericoloso viaggio verso la Duat, il mondo dei morti, e l’immortalità. Siccome pensavano che l’anima fosse composta da più parti, il Ka rimaneva presso il defunto e il Ba poteva accedere alla Duat. Non è una brutta idea: il Ba, dipinto come una testa umana azzurra, oppure come una cicogna con il volto umano, permetteva alla persona morta di muoversi ovunque, e di prendere qualsiasi forma.

Così penso al mio compagno di festa, sorrisi e parole, in infinite polaroid mentali ci vedo in pizzeria, tutti e due con la maglietta dei lavoranti, e poi penso a tutte le persone che non ci sono più ma amo ancora, e mi concedo di immaginarle svolazzare dappertutto. Prego, non so cosa, forse quel luogo dentro di me che Etty Hillesum chiamava dio, che ciò che amo si salvi, il progetto condiviso, le relazioni che ha creato, la nostra fatica, anno dopo anno, per cambiare le regole del gioco, e che non siamo costretti a tornare indietro. Ma se sarà così, penserò all’Uroboro, che è in una perenne inversione a U, e ritrovata la sua coda la divora tramutandosi in infinite successive versioni di sé.
Come noi, che non possiamo non cambiare, e se scriviamo una lettera al nostro io futuro possiamo azzeccarla, ma anche sbagliare tutto.

È questione di karma. I nostri pensieri, le nostre azioni e omissioni, le nostre parole ci modellano come creta, e diventiamo quel che siamo, con quel corpo lì, quella faccia lì, mortali, ma sempre, sempre possiamo cambiare.
Non è solo la nostra natura, è un nostro diritto. E siccome la tramutazione finale, o semifinale, non so come sia organizzato questo multiverso, è la morte, voglio chiudere come finiscono i Sundara Karmanella canzone-loop da cui tra poco usciròper dormire, consolarmi e sognare: «What if there’s no final answer, the existential disaster / Could you learn to love this precious life before it’s too late?»
Se non c’è nessuna risposta finale, possiamo imparare ad amare questa vita preziosa prima che sia troppo tardi?

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2 risposte su “Questa vita preziosa

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