Bab-ili, dove abita la divinità

Paolo Interdonato | Il fumetto di Babele |

«Il Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città. Per questo la si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra.»

E se non fosse una maledizione?

L’ambiguità semantica che consente l’incatenarsi del senso e il dialogo virtuoso che porta alla conoscenza sono, appunto, il dono che Dio fa agli uomini che stanno costruendo la Torre di Babele. Una pillola rossa, come quella offerta da Morpheus a Neo in Matrix, per restare «nel paese delle meraviglie e vedere quanto è profonda la tana del Bianconiglio».

Lo sappiamo, ce lo hanno raccontato più volte per metterci in guardia dai pericoli dell’ambizione umana quando non conosce confini: l’origine delle lingue e la dispersione dell’umanità su tutta la superficie del pianeta può essere interpretata come una condanna divina per punire la superbia. Una maledizione che spezza l’armonia della comprensione universale, all’origine di tutte le diversità linguistiche e culturali. E quindi dei confini, delle conquiste e delle guerre. Una maledizione che colpisce quella lingua, unica e universale con cui nominare il mondo e vestirlo di metafore, nata, secondo il racconto biblico delle origini del mondo, da una strana fusione tra dono divino e libero arbitrio:

«Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di animali selvatici e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome.»

Possiamo allontanarci dall’idea che Babele sia una maledizione, cambiando punto di vista e speziando quella lettura. Possiamo leggere quel racconto coma la storia di un dio che sa che la diversità è bellezza. Donando la confusione delle lingue, disperde un popolo capace di inseguire progetti precisi e dai confini definiti, come quelli di una torre che affonda le fondamenta nel cuore degli inferi e la cui sommità rivaleggia con il cielo. Perché se l’umanità parlasse una sola lingua, allora gli uomini sarebbero prigionieri di un unico sistema di narrazioni. Storie sempre uguali a loro stesse, sul cui senso non sarebbe possibile gettare il seme del dubbio. Il dono di Dio a questi uomini, cui nessuno avrebbe potuto impedire di fare quanto avevano progettato, è un ecosistema di storie complesse e mutevoli, fatte di ambiguità, dubbio, intraducibilità, significati inafferrabili e semiosi illimitate. Storie che cambiano nello spazio e nel tempo, mentre vengono raccontate, trascritte, tradotte, fraintese, dimenticate, reinventate, e poi riscritte, dipinte, scolpite, messe in scena, illustrate, riprodotte, fotografate, filmate, trasmesse, digitalizzate, moltiplicate, …

E, in questo senso, questo Dio buono e paterno, capace di decisioni difficili e criticabili – oh, quanto criticabili! – per il bene dei propri figli, sarebbe proprio nelle storie, con la loro forma fallibile e molteplice.

Non esiste un altro Dio capace di segnarci e di cambiarci tanto quanto fanno le storie. Un Dio che abbiamo bisogno di ascoltare, assimilare, mettere in relazione con noi stessi e con il nostro mondo e, ancora, di raccontare, modificare, proseguire, trasporre, attualizzare, combinare…

Un Dio possibile perché fatto di parole e di linguaggio. Andrea Moro spiega con chiarezza che lo scopo ultimo della linguistica è la definizione delle lingue umane possibili. La prima delle regole empiriche che lo studioso espone nel suo Le lingue impossibili dice:

«Ci sono proprietà che scartiamo in automatico come potenziali fattori di influenza su una lingua: per esempio non penseremmo mai che una lingua possa essere sensibile alla temperatura o alla velocità con cui la si parla; equivarrebbe a stabilire un legame ingiustificato tra proprietà formali di una lingua e le sue caratteristiche fisiche, e sarebbe insensato quanto mettere in relazione il tipo di carta usata per pubblicare un racconto e la personalità dei personaggi messi in scena.»

È un esempio così chiaro da non richiedere particolari spiegazioni: Don Quijote presente nella prima edizione del romanzo di Miguel de Cervantes Saavedra, edita da Francisco de Robles nel 1605, non è sicuramente meno Don Quijote del protagonista dell’edizione pubblicata nel 2005 dalla “Real Academia Española” e dalla “Asociación de Academias de la Lengua Española”, per festeggiare i quattrocento anni dell’opera.

Eppure, dopo Babele, dopo la confusione delle lingue – benedizione o maledizione che sia – esistono delle narrazioni per le quali questa evidenza diventa molto più sfumata. Per questi racconti, che mescolano codici distinti e distanti, immagini e parole, il distinguo tra forma e contenuto diviene evanescente e il formato, la scelta della carta, la legatura, perfino la densità degli inchiostri cambiano la personalità dei personaggi.

Questi racconti hanno nomi diversi e confini incerti: fumetti, libri illustrati, fotoromanzi, reportage, graphic novel, picture book… La loro definizione è sempre insoddisfacente: a volte fa riferimento alla forma e ai generi; altre, si riferisce alle caratteristiche editoriali; altre ancora, ai pubblici. In ogni caso, quei nomi sono tentativi imprecisi di catturare le caratteristiche peculiari e, man mano che li si raffina, si offuscano e diventano meno nitidi.

È evidente, però, che queste narrazioni, che pur essendo poco definibili sono sempre riconoscibili, godono della confusione delle lingue e vivono al meglio proprio in quel territorio indefinito.

È lecito chiedersi allora se quella confusione di codici, quel magma di parole e immagini, che può essere connubio o lotta, non sia lo strumento perfetto per leggere l’uomo nella sua vita quotidiana, maledetto (o benedetto) dall’ambiguità del linguaggio. Il fumetto di Babele come chiave per analizzare e leggere il nostro vivere in mezzo alle storie.


Note:

Per le citazioni bibliche ho fatto riferimento al testo CEI 2008, cioè alla traduzione ufficiale in italiano della confessione cattolica, a cura della Conferenza Episcopale Italiana. Il racconto della Torre di Babele è nell’undicesimo capitolo della Genesi, vv. 1-9; Adamo dà nomi agli animali nel secondo capitolo, v.19.

Le lingue impossibili di Andrea Moro (Raffaele Cortina Editore, Milano, 2017, tradotto dall’inglese da Nicola Del Maschio) indica meglio di qualsiasi altra cosa io abbia letto il punto di instabile equilibrio cui è giunta in questi anni una disciplina tanto dinamica quanto la linguistica.

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