Sterza deciso nella foresta

Lorenzo Ceccherini | Il bassista non se lo incula nessuno |

Ci sono almeno due tipi di motivazione per cui freni con decisione, ti agganci al volante (al manubrio se sei in moto) con piglio deciso e smulini a sinistra per invertire la rotta (se sei figo aggiungi il freno a mano e sgommi nella nuvola biancastra di pneumatici surriscaldati – mai provato, probabilmente cappotterei). La prima: non vuoi più andare dove credevi di volere, la certezza di stare andando a perderti o la paura della destinazione vincono, e non avendo altre direzioni possibili – ché se ne avessi faresti solo un piccolo aggiustamento (suonano tanto più deliberati e responsabili gli aggiustamenti) – inverti a centottanta gradi e massimizzi il rendimento nell’allontanarti dall’obiettivo che hai testé ripudiato. Numero due: la saudade per l’origine, spesso la sua romanticizzazione – da dove vieni stavi meglio, il viaggio che stai facendo non ha senso, torna indietro, torna a casa… – e il sospetto è che la sirena della paura abbia glassato di miele proprio quello che era l’assunto negativo iniziale, abbandonare proprio quella direzione che avevi preso. Torna a casa, torna, che è meglio.

Come in molti casi, quasi tutti a dire il vero, l’attrazione gravitazionale del tema monografico del Quasi settimanale esercita poca presa emotiva sul bassista da salotto che si trova in primo luogo un po’ smarrito. Innanzitutto perché per fare un’inversione a U dobbiamo essere su una strada, su un percorso, avere un piano di volo. E noi non l’abbiamo, noi facciamo semplicemente qualcosa, per brevi periodi, per venti minuti al giorno, senza particolare criterio. Questa vita da reietti la soffriamo ma abbiamo anche imparato ad apprezzarla – viviamo in una Christiania musicale nella quale possiamo imbarcarci in cento imprese diverse, se vogliamo, o anche nessuna, al riparo dal giudizio e delle norme dei biechi borghesi (se togli la musica siamo noi i biechi borghesi, però).

Faccio cose

Quindi, c’è il mondo dei grandi, quello delle svolte radicali fatte quando sei già sotto i riflettori e hai tanti occhi puntati addosso, e quello dei piccoli, dove gli occhi sono, fortunatamente, quelli comprensivi e concilianti (entro certi limiti) di mogli, mariti, figli, animali domestici. I grandi, quando sono musicisti, usualmente divergono dalle rispettive rotte con angoli abbastanza diversi dai centottanta gradi, quando sono grandissimi inventano nuove geometrie (Bowie, Radiohead, per fare un paio di esempi) ma sempre con la sensazione di essere andati «avanti». Se non parliamo di musica, l’inversione a U pare essere appannaggio della politica. Una ricerca Google per «U turn» in lingua inglese ci restituisce (a me almeno, perché i risultati di ricerca sono personalizzati…) risultati che afferiscono in modo quasi esclusivo alla politica e, in modo assai limitato, al calcio. Che tornare indietro a centottanta sia sinonimo di presa per il culo?

La terza eventualità è che un mostro, o un Buddha, appaia intraversato minacciosamente sulla strada – in quel caso lo Schwerpunkt è chiaro, è qui, adesso, oltre non si va e si deve fuggire all’indietro a tutto gas. Che poi il mostro sia immaginario poco cambia, ma di fughe all’indietro ne abbiamo vissute tutti qualcuna e sono quasi tutte senza ritorno (ricordiamo la fine che fa lo Steinway di Wertheimer ne Il Soccombente).

Non so più chi l’ha detto (non lo sapevo quando ho scritto le parole prima della parentesi, ora sì) che solo gli stupidi non cambiano mai idea – ma centottanta è una storia a sè. Vuol direi proprio zero gradi di libertà nella ritrattazione, significa che negando A stavo andando a B ma poi dico NON B (e forse NON NON A). La cultura occidentale (ma non solo) non prende benissimo le abiure. Ai tempi degli auto da fé, ma già nel medioevo delle crociate contro i Catari, il peggio del peggio era essere un relapsus, ovverosia uno che, avendo precedentemente abbracciato una fede eretica ed essendo tornato alla retta via dell’ortodossia, ci ricascava, come quelli che riprendono a fumare. A quel punto quando ti beccavano, se abiuravi di nuovo ti davano un piccolo bonus: prima di essere arso al rogo ti strangolavano e decapitavano. Segno che il cedimento alla coercizione è sempre stato preso dai torturatori come una testimonianza della qualità del loro lavoro e tradotto in piccoli gettoni di riconoscenza. E che i cambi di rotta sono considerati un male assoluto – ci destabilizzi la società dei giusti con i tuoi dubbi del cazzo, eh!

Donde esta la plaza Mayor? Real Madrid! [cit.]

Posto che la didattica musicale, per come l’ho sentita raccontare agli amici professionisti, principalmente, a volte un pochetto somiglia agli auto da fé e al film Whiplash (ma senza esagerare, eh!), i cambi di rotta sono spesso mal visti anche nell’ambito musicale, ma in particolar modo da quelli che sono meno competenti di musica in senso stretto. E stiamo parlando del pubblico (per chi ne ha uno) e dei tuoi colleghi di band, fissati per uno e uno solo tra le centinaia di generi musicali. [Metallari e jazzisti integralisti, ma anche esegeti del blues, epigoni del prog, sono i più spaccapalle, c’è poco da fare. Tra di loro lontani anni luce, segno che la voglia di spezzare le gambe alla divergenza e all’eclettismo germoglia spontanea su tutti i bracci galattici, non solo quello di Orione]

A esser sinceri l’imbarazzo da inversione a U è, appunto, più un problema da piccoli che da grandi. Questi ultimi, vuoi per vanagloria, vuoi per platee di pubblico sovrabbondanti, vanno un po’ dove vogliono, dicono che non fanno una cosa e poi la fanno e non si perdono nessuno per strada. I Queen che dicono che non avrebbero mai usato un synth? A un certo punto iniziano a usarli – si è visto il calo del consenso? Non mi risulta. I Depeche Mode che, in direzione opposta, ai tempi dei primi due o tre album dicono che la chitarra è morta? Martin Gore ha al collo una Gretsch tutta glitter da trent’anni e ci fa cose tipo Personal Jesus. Se c’è stata la fuga dei fan indignati è un ricordo fossile di migrazione preistorica rispetto al successo mostruoso dei tre decenni successivi. I piccoli, piccoletti e minuscoli, invece, fanno dell’ortodossia un elemento fondante in termini di identità, non sia mai che si cambi, il rischio è di non sapere più chi si è. Questione di gusti ma quelli con la cover band dei Dire Straits (o chi per loro) da venticinque anni non riesco a capirli – non riesco a immedesimarmici, ecco.

Quando il movimento è divergente si perdono più fan, questo è certo, però si scoprono nuovi territori, e a volte la necessità era proprio abbandonare la comfort zone del noto per spostarsi altrove. I Radiohead dopo OK Computer sono un buon esempio, come dicevo poco fa. E sotto sotto, se guardiamo oltre il risultato, quello di un cambio di rotta notevole con il successivo Kid A, un po’ di inversione a U la troviamo, almeno nel tentativo di abbandonare il feticcio della melodia per cantare maggiormente le lodi del ritmo come aspetto fondamentale e motivante. Tentativo futile, come insegna Thelonius Monk la melodia è tutto e tutto è melodia (accordi pure i fusti della batteria, mica è un vezzo). Chiaramente anche il ritmo è tutto, non siamo in un contesto di logica cristallina, questo si era capito, no? Naturalmente quello che per Monk era melodia per te o per me suona come uno scioglilingua in esperanto – ma poi capisci che aveva ragione quando ti viene il sospetto, decenni dopo averla sentita l’ultima volta, che le prime tre note della sigla di Ok il prezzo è giusto forse le hai già sentite all’inizio di Giant Steps di Coltrane. Il potere è nelle mani di chi la musica la sa creare – giusto un’opinione, senza nulla togliere agli esecutori e a chi reinterpreta (io Imagine riesco a digerirla con gusto solo nella versione degli A Perfect Circle, ad esempio) – e il potere si dispiega, probabilmente, anche così, in modo più o meno consapevole, nella trama di un prodotto musicale da entertainment tritissimo. Per chi vuole sentire, per chi sa riconoscere, ci sono bricioline pollicinesche che portano da nessuna parte ma ti dicono mon semblable, mon frère se sai leggere i messaggi che sono stati lasciati lì dove non li nota quasi nessuno. Ma il tempo passa e non ho più una televisione in casa da quasi quindici anni, forse le cose sono ulteriormente peggiorate, chissà.

Non c’entra niente (invece c’entra) ma ieri leggevo che nel ’69 è stato utilizzato per la prima volta in Sesame Street, e di lì nel Muppets Show, il pezzo di Piero Umiliani Mah nà mah nà, pubblicato un anno prima come parte della colonna sonora del mondo documentario Svezia Inferno e Paradiso, una rappresentazione pruriginosa assai idiota e stereotipata al ribasso (ribassissimo, mi pare di capire) della società svedese pensata per solleticare le membrane nostrane che andò benissimo al botteghino come VM18, dispiacque alla critica e soprattutto agli svedesi che, nonostante le promesse di non far circolare l’opera in Svezia fatte ai partecipanti, ebbero modo di risentirsi quando il robo fu trasmesso in patria, dichiarando ufficialmente il regista persona non grata per svariati anni. Oggi però resta il Mah nà mah nà in salsa Muppet. Che dire? Le inversioni a U, a Z, a T, a X, spesso non si capisce chi le decide però a volte rendono pure bene! [Alla fine anche agli svedesi, in un certo senso. Pare che il «prurito» del documentario abbia fatto incrementare in modo evidente il turismo italiano in Svezia] Insomma, la strada che prendono i prodotti non la controlla quasi nessuno ed è confortante, dopo tutto, che la musica di Umiliani abbia preso la strada dei Muppet e lasciato quella degli stupidari.

L’avete sentita tutti ma non conoscevate il documentario (neppure io e stavo meglio prima)

Thom Yorke, dopo OK Computer era veramente esausto, sfranto, o almeno così ha detto lui. Con il blocco dell’autore sfinito per il tour de force da produzione-promozione-tour-pressione creativa a tenere il livello di successo raggiunto. Quando il mostro che sbarra la strada è fatto di more of the same i tizi ganzi (e/o disperati) si buttano nella foresta ai lati della strada per scoprire se dentro ci abita qualcosa in grado di dare una ragion d’essere a quel che si fa. Tutti gli altri erano spaventati, dai fratelli Greenwood a O’Brien a Nigel Godrich – Yorke si era fissato con Aphex Twin, gli Autechre, gente così, e di musica elettronica, come la si fa, ne sapeva il giusto, pochino – però poi alla fine nel bosco ci si sono infilati tutti quanti e sono venuti fuori su un’altra strada con Kid A, l’inizio di una nuova rotta, in effetti.

La paura la fa da padrona, mi sento di poterlo dire. Ecco la denominatrice comune, dai Radiohead a te a me a tuo cugino piccolo che si è messo a fare trap (scherzo, no, lui decisamente no). Più di vent’anni fa non avevo studiato slap e in un pezzo avevo messo due battute di slap. Non erano un granché, anche se ci potevano stare nell’economia del pezzo, ma quando le suonavo sentivo un senso di limite che mi asfissiava puntualmente. Da allora mi sono detto che non faceva per me. Un paio di mesi fa, nel ritiro domestico in cui la didattica passa obbligatoriamente per le piattaforme web, nel corso che provo a seguire con ritardo ormai endemico, mi sono imbattuto in due lezioni sullo slap. Ecco, oggi sono ampiamente oltre quelle due battute anni ’90 e inizio a divertirmi molto di più. Il mio tempo continua a essere contato, contatissimo, studio un po’ di tutto ma non sono più convinto di non dover provare a usare quella tecnica. Certo, in sala prove il bassista tutto slap rompe le scatole, ma qui siamo in salotto e la cosa che conta di più è avere corde brillanti, squillanti, nuove, quindi.

Vado a cambiare le mie prima che gli uccellacci neri del lunedì ci sopraffacciano.

La tecnica di Flea non sarà perfettissima ma lui fa la sua cosa alla grande. Cosa gli vuoi dire?
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(Quasi)