Le canzoni di Jaques Brel sono oggetti perfetti. La scrittura dei testi si appoggia sulla struttura musicale con una precisione che trasforma ogni brano in un’architettura (complessissima) che trasmette quel senso di completezza e spontaneità proprio solo delle opere più riuscite. Eppure, nonostante questa perfezione formale, ogni volta che sentiamo qualche altro interprete eseguire un pezzo di Brel, ci coglie una sensazione di mancanza, un senso di nostalgia che sconfina nel fastidio.
Senza arrivare alle versioni imbarazzanti di Iggy Pop o di Sting che cantano Ne me quitte pas, o al divertimento di David Bowie che traduce e adatta Amsterdam, trasformandola in un’altra canzone, anche ascoltando la splendida versione di Juliette Greco di La Chanson des vieux amants, sentiamo l’assenza di Jacques. Vorremmo che fosse qui, ad aggiustare quello che non funziona in questa versione.
La fisicità di Brel era un momento costitutivo delle sue canzoni, ed è proprio per la sua gestione del corpo che a 40 anni riesce a interpretare in un film un personaggio ventitreenne: l’anarchico belga Raymond Callemin, più noto come Raymond La Science e membro della famigerata Banda Bonnot. Il film, di cui Brel scrisse anche la colonna sonora, diretto da Philippe Fourastié (ex assistente di Godard e di Rivette, che cominciava una promettente carriera registica interrotta purtroppo da una morte prematura) racconta proprio la breve avventura della Banda Bonnot.
Jules Bonnot, anarchico francese, fu l’inventore della rapina con l’automobile e la storia della sua banda è splendidamente raccontata da Bernard Thomas in un libro cui il film di Fourastié si ispira. Quando Bonnot verrà ucciso, in un furioso scontro a fuoco, il 28 aprile 1912, lascerà (ci racconta Thomas e a noi piace credergli) un biglietto, in forma di testamento, in cui solleva molti compagni anarchici da ogni responsabilità e che chiude con queste parole:
«Ce que j’ai fait, dois-je le regretter? Oui, peut-être, mais s’il me faut continuer, malgré mes regrets, je continuerai.»
Sì, la frase è un po’ diversa, e meno ad effetto, da come ce l’ha raccontata Pino Cacucci: quel «rimpianti forse, ma in ogni caso nessun rimorso», ma il senso è quello: l’accettazione di un rimpianto. E il rimpianto è il ripensare a qualcosa o qualcuno con amara nostalgia. Desiderare che sia qui, mentre non c’è.
Ma funziona anche al contrario (lo vedi lo strano anello che si avvita su se stesso?). Per qualcosa o qualcuno che è tornato, ma era meglio di no. Tipo quello che succede al colonnello Chabert, nel noiosissimo racconto di Balzac, reso però in modo sulfureo ed eccitante da Magnus e Bunker nella loro trasposizione a fumetti, in “Kriminal” n.28 (novembre 1965), con quel titolo bellissimo, Non dovevi ritornare. Dolly non desidera proprio più che Ted torni lì da lei, ma lui torna, perché il rimpianto, la nostalgia, in origine, non è di chi c’è, ma di chi non c’è. È Ulisse che affronta il Nostos, non Penelope. Anche se, a differenza di Dolly, è Penelope che lo desidera lì. Poi quando Ulisse arriva, come ci insegnano Lob e Pichard (ma siamo già negli anni ’70) le cose non funzionano più. Come non avrebbero potuto funzionare se Syd Barret fosse rimasto nei Pink Floyd.
Lo dice chiaro Roger Waters, quando nel 1975 scrive praticamente da solo – inaugurando la sua dittatura decennale sul gruppo – Wish you were here. L’assenza di Syd è causa del rimpianto da cui il disco nasce, ma quella stessa assenza permette la realizzazione del disco. Se ci fosse stato Syd, non solo non ci sarebbe stato il nono album dei Pink Floyd, molto probabilmente non ci sarebbe stato nemmeno il gruppo.
Che meraviglioso paradosso. Vorrei tu fossi qui, e questo desiderio non solo crea qualcosa ma definisce anche la mia identità. Se tu fossi qui, quel qualcosa non potrebbe essere realizzato, e io non sarei quello che desiderando lo realizza. Se tu fossi qui non potrei desiderarti, quindi non esisteresti nemmeno tu. Ma se tu non esistessi, io potrei desiderarti.
Basta. Fermate questo assurdo anello.
Che è composto da
- La Chanson des vieux amants nella versione di Juliette Greco.
- La Bande à Bonnot di Philippe Fourrastiè, 1969.
- Bernard Thomas, La banda Bonnot, Bepress, 2011.
- Pino Cacucci, In ogni caso nessun rimorso, Feltrinelli, 2013.
- Honorè de Balzac, Il colonnello Chabert, e/o, 2011.
- Magnus e Bunker, Non dovevi ritornare, “Kriminal” n.28, Editoriale Corno, novembre 1965.
- Lob e Pichard, Ulysse, Rizzoli Lizard, 2019.
- Pink Floyd, Wish you were here, 1975 .
Wish you were here è anche il titolo della biografia ufficiale di Douglas Adams, scritta da Nick Webb. Non ci risulta ne esista una traduzione italiana. Mentre la auspichi insieme a noi, per ingannare l’attesa, ti consigliamo di imparare a prepararti il cocktail che va di più là, nel Ristorante al termine dell’Universo. Il Gotto esplosivo pangalattico.
Questa la ricetta secondo la Guida galattica per autostoppisti:
«Prendete una bottiglia di Liquore Janx. Riempitevi un bicchiere.
Poi versatevi una dose d’acqua dei mari di Santraginus V.
Fate sciogliere tre cubi di Mega-gin di Arturo nella mistura (che dev’essere opportunamente ghiacciata, altrimenti il benzene in essa contenuto va perso).
Aggiungetevi quattro litri di gas delle paludi falliane, in ricordo di quei felici autostoppisti che sono morti di piacere nelle Paludi di Fallia.
Sul retro di un cucchiaio d’argento fate galleggiare una dose di estratto d’Ipermenta Qualattina, dall’odore e dal sapore dolci, pungenti, mistici.
Aggiungete il dente di una Tigre del Sole Algoliana. Guardatelo dissolversi e diffondere il fuoco dei Soli di Algol nel cuore della bevanda.
Spruzzate un po’ di Zamfour.
Aggiungete un’oliva.
Bevete… ma… con molta attenzione…»