Diventare disumani

Boris e Paolo | QUASI |

Nella nostra lingua, l’uso comune attribuisce al prefisso DIS un significato peggiorativo, con il quale si rovescia il senso della parola cui lo si prefigge. Prendiamo, per esempio, la parola “umano”, alla quale per via di un autoinganno culturale – che trova le sue radici nella rilettura patristica del platonismo – attribuiamo solo categorie ontologiche eticamente positive. Se ci anteponiamo quindi quel prefisso, la prima cosa che ci viene in mente pensando a qualcuno di “disumano” è un essere bestiale, indegno, cattivo, crudele.
In questo senso siamo ossessionati dal rischio di diventare, attraverso il nostro agire, disumani. È per esorcizzare questa paura che, mentre non facciamo che ripeterci lo slogan «restiamo umani», raccontiamo e ci facciamo raccontare storie terrificanti di quali potrebbero essere le cause e quali gli effetti di questo disumanizzarci.
Vampiri, licantropi, zombi, ultracorpi e cyborg, mutazioni genetiche e culturali che ci disumanizzano fino alle conseguenze più estreme, affollano le storie con cui, in ogni macrogenere narrativo esorcizziamo la paura di vedere diminuire questa nostra umanità.

E se invece non fosse una paura, ma un desiderio? Se invece, in fondo alla nostra struttura genetica funzionasse qualcosa di simile alle fissazioni inibitorie di cui il tempo evolutivo ha fornito le specie animali dotate di naturali strutture morfologiche offensive? Un’inibizione che ci fa, almeno, desiderare di essere disumani, di diventare qualcosa che non conservi nulla di umano?
L’etologia e l’antropologia ci hanno dimostrato da tempo, grazie al lavoro di Desmond Morris, di Robert Ardrey, di George Schaller e soprattutto di Konrad Lorenz, che la pretesa “sopra naturalità” umana, non ha alcun fondamento.
Allontanandoci dalla nostra animalità, siamo arrivati a considerare – attraverso un processo di rimozione che non ha eguali nella storia evolutiva – l’umanità un ente etico autonomo e ci siamo convinti, sulla base di questa eticità autoattribuita, di essere superiori a ogni altra specie, fino al punto di non considerarci più una specie zoologica.
Eppure quelle che attribuiamo alla “disumanità”, sono invece caratteristiche tipicamente umane: siamo l’unica specie a presentare un’aggressività intra-specifica così spiccata. La crudeltà dell’uomo, come sottolinea Lorenz ne Il cosiddetto male, non è bestiale, bensì tipicamente umana. Solo quando torneremo a usare il termine “umano” come definizione tassonomica di una specie animale e non come definizione di una superiore qualità etica, solo allora avremo fatto il primo passo verso quell’”altra umanità” di cui parla Franco Fortini nella sua versione dell’Internazionale.

Insomma, esorcizzazione della paura di diventare altro da quel che crediamo di essere, oppure speranza di un utopico cambiamento della nostra natura, o ancora razionale constatazione della nostra animalità, il raccontarci storie in cui la nostra umanità subisce attacchi e trasformazioni, è un modo di ricordarci  che, per quanto avesse senza dubbio ragione quel saggio cinese che sosteneva che tutto l’animale è nell’uomo, è anche vero che questo «animale nell’uomo» non è per principio qualcosa di cattivo. Che anzi, come diceva Lorenz, proprio recuperandolo potremo divenire finalmente “umani”. Davanti alle storie ci troviamo nella stessa paradossale situazione di Irena, la protagonista di Cat People (puoi scegliere quale versione preferisci, se quella del 1942 di Jacques Tourneur con Simone Simon nella parte di Irena, oppure quella del 1982 di Paul Schrader con Nastassja Kinski: a noi piacciono entrambe, molto).

In questa ultima settimana prima delle feste natalizie, quel periodo dell’anno in cui si deve essere “più buoni”, le collaboratrici e i collaboratori di QUASI, ma anche le lettrici e i lettori che non ha, sono posti di fronte allo stesso quesito di Irena: restare umani o diventare disumani?  

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