Mi annienta e poi mi consola

Francesco Pelosi | Affatto |

Ha certamente ragione Davide Toffolo quando fa dire al se stesso a fumetti che quello che leggi da bambino diventa parte di te. E lo fa in maniera totale e profonda, aggiungo io, senza potere essere mediato dalla ragione.
Toffolo sta cercando di raccontare al suo fisioterapista cieco perché Magnus sia così importante per lui, e in definitiva, perché sia così grande. Ci riuscirà, certo, siamo nella sua storia, ma temo che questo Come rubare un Magnus, che gli ha richiesto più di dieci anni di lavoro, non possa fare molto in quel senso per chi ha occhi cresciuti e educati al contemporaneo. Ovvero per chi non era bambino quando «Magnus era sempre in edicola». Non si può trasmettere una passione a chi non l’ha vissuta.
Viaggiando nei terreni scoscesi della memoria e delle questioni private, si rischia di caracollare nella nostalgia, nell’elegiaco fine a se stesso. Se ti va bene, se ci riesci, puoi però ammantare il tuo racconto di epica, e renderlo così universale. Toffolo sembra esserci riuscito: il suo ricordo di Magnus porta in egual misura nostalgia ed epica, e il tutto diventa allora emozionante e a tratti magico, sospeso. Io per lo meno, soprattutto nelle scene con Bonvi e Magnus che si scambiano battute cameratesche all’Albergo del Gallo, colmi del ruvido amore proprio delle amicizie maschili, ho quasi pianto. Ma con me è giocare facile, i miei occhi – e il mio cuore – hanno terreno fertile per questa passione.
Anch’io come Toffolo sono cresciuto con Magnus anche se, a differenza sua che ha vissuto gli anni di “Kriminal”, “Satanik” e “Alan Ford” quando erano in edicola -e che ha quindi visto la stella di Magnus brillare, quando i disegni di Roberto Raviola erano conosciuti in tutta Italia-, i suoi fumetti li ho intercettati di riflesso, ritrovandomeli in casa e leggendoli già lontani dal loro tempo. Ma mi hanno comunque formato, erano miei nel momento in cui certe opere devono esserlo, da bambino.

Mesi fa, quando ho scoperto che ad Aprile 2020, in pieno lockdown, sarebbe uscito in edicola il primo volume di una ristampa di tutta l’opera di Magnus (al di fuori di ciò che pubblicò con Max Bunker), mi ha travolto un’emozione inspiegabile, completamente incontrollata. Nonostante tutte le storie che sarebbero uscite nei 30 volumi della raccolta facessero già parte della mia libreria da anni, le ho acquistate ugualmente. Nelle mie intenzioni iniziali avrei preso solo i volumi dedicati allo Sconosciuto e ai Briganti, per la gioia di leggerli “da nuovi” durante quella clausura forzata, ma poi mi sono detto: perché non avere anche un’altra edizione delle Femmine incantate o di Milady nel 3000? E, scusa, e Le 110 pillole allora? Chiaramente, dentro me, avevo già deciso di prenderli tutti.
“Il Grande Magnus” è diventato così, in quei due mesi di quarantena, il momento più atteso della mia settimana da recluso, i miei dieci minuti di libertà. Il motivo per uscire di casa il giovedì mattina presto, recarmi all’edicola adiacente al mio monolocale, e poi rientrare in tutta fretta con il bottino sottobraccio. Addirittura, una volta aperti i volumi, notando che le tavole erano piuttosto piccole e montate a volte in maniera indecente, non provavo nessun fastidio. Non ci pensavo neanche, non potevo. Quei libri erano diventati la mia ancora di salvezza, la mia speranza verso il futuro, il senso in mezzo a una quotidianità che non aveva più senso.
Magnus e i suoi fumetti erano tornati ancora una volta da me, nel momento del bisogno, parlando lo stesso linguaggio del mio cuore, vibrando ancora di quel segno che lo impresse da bambino.

Per questo il libro di Davide Toffolo mi emoziona, mi parla. Perché si sente un grande amore che esce dalla pagina. Certo, si sentono anche altre cose. Si sente il suo autore spesso in primo piano, si avverte una vaga incompiutezza finale, un sentiero che rispetto alle premesse iniziali poi un po’ si perde. Ma non mi interessa, non sono quelle le cose importanti qui. Io a questo fumetto gli voglio già un gran bene, anche se l’ho letto soltanto una volta. È talmente immediato e senza filtri il sentimento che trasmette, che mi viene da dire che ogni opera dovrebbe essere così.
Ogni buon fumetto vive sotto la pagina su cui è disegnato, pulsa lì dentro, in quei millimetri di carta, china e colore. In quello spessore minuto, dove esiste il nulla della creazione, ogni grande fumetto vibra e rimbomba del ritmo esatto del cuore che lo ha generato.  E non parlo del cuore dell’autore. È il cuore stesso dell’opera quello che si muove lì sotto, l’elemento inaspettato che nasce quando l’arte è tale. Il tutto che è più delle sue parti. La nascita di una drago.

Per quale altro motivo Magnus avrebbe dedicato sette anni della sua vita, gli ultimi (anche se questo non poteva saperlo), alla realizzazione di un lungo episodio di Tex, la cui sceneggiatura non è certo imprescindibile? Cos’era quel fuoco che lo possedeva, muovendolo incessante verso quell’ambizione così oggettivamente vuota, se non il suo cuore bambino? Se non la sua ammirazione per Galep o l’amore che provò da piccolo per le storie del ranger e degli altri grandi fumetti d’avventura che lo incantarono?
Perché Magnus, uno dei disegnatori più incredibili mai esistiti, uno degli autori più innovativi e dirompenti, è stato sempre legatissimo a quello che viene chiamato fumetto popolare e seriale? La risposta, io credo, al di là delle possibili esigenze economiche, sta proprio in quello che dice Toffolo al suo fisioterapista: ciò che leggi da bambino diventa parte di te. I fumetti sono soprattutto una questione privata. Un conto aperto fra te e il tuo immaginario, mai così personale anche se condiviso.
Per questo non so quanti occhi contemporanei, cresciuti da immaginari contemporanei, possano amare Magnus. Non è loro, non gli appartiene. E il suo segno è specifico della sua epoca, per quanto ai miei occhi continui ad apparire senza tempo.

Magnus, Hugo Pratt e Bonvi, rappresentano per me una sorta di santa trinità del fumetto italiano, una divinità laica a tre facce, che tra l’estate del 1995 e i primi mesi del 1996 ha deciso di abbandonare questa terra.
Che storia anche quella. Morti tutti e tre di fila, come le tessere del domino. E l’ultimo, lui, Magnus, il più grande, ha chiuso la porta.
Ero convinto che questa visione della trinità laica e fumettara fosse mia personale, ma come sempre l’immaginario collettivo respira e ispira ad ampio raggio. Scoprire Quelli che vanno, quelli che restano, storia breve di Onofrio Catacchio, ristampata su Il Grande Magnus 27, è stato un vero colpo al cuore. Vedere quei tre darsi un ultimo saluto alla stazione, bevendo due bicchieri e fumando una stop, mi ha dato la stessa sensazione di un potente déjà-vu. Li avevo già visti lì migliaia di volte, in quel regno dell’immaginazione condivisa che Alan Moore chiama Idea-Spazio, ma non li avevo mai visti così bene, così belli, come in quel momento.

Ovviamente, non ho mai conosciuto Magnus di persona. Quando ho cominciato a leggere i suoi fumetti, mancavano pochi anni alla sua morte. Il breve racconto di Catacchio prima e ora questo lungo di Toffolo me lo hanno finalmente ripresentato, oltre le sue opere. E il suo rimpianto – come è scritto a epigrafe sulla sua tomba – mi annienta e poi mi consola. Mi annienta e poi mi consola. Facendomi ritrovare ogni volta un po’ di me stesso, lì sulla pagina, fra le sue chine.

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