Alla ricerca dell’auto perduta

Paolo Interdonato | Pantomime del Calisota |

Quando Boris scompare con la sua bicicletta, posso smettere l’attitudine pagliaccesca che ho indossato per salutarlo: solo gli eroi recitano per un pubblico invisibile. Finisco il mio balletto e assumo la consueta compostezza. A quel punto, trascinando il mio passo incerto e un po’ basculante, mi metto a cercare l’auto. Mica facile. Non mi riesce mai di trovarla al primo tentativo. Di solito il telecomando della chiave mi aiuta. Seguo la luce intermittente e, più o meno al terzo colpo, la trovo. Ma questo perché ho mollato l’auto nel solito parcheggio in Bovisa e il terreno da battere non è poi così esteso.

Ci sono state situazioni nelle quali, completamente privo di senso d’orientamento come sono, ritrovare l’auto mi ha richiesto un tributo impari di fatica e paura. Ore a girovagare a caso per una città i cui misteri si infittivano a ogni passo.
A proposito… Ti ricordi quando ancora si andava ai festival del fumetto?
Ti Ricordi com’era trovare un parcheggio a Lucca?

Sto cercando di riportare alla memoria la mia prima volta a Lucca. È successo da qualche parte alla fine degli anni Ottanta. Avevo una ventina d’anni. Diciamo venti, così facciamo pendant con il tema della settimana di QUASI. Un viaggio in giornata, estenuante, per raggiungere una cittadella per me mitica. Un po’ di coda, ma neanche troppa, per entrare nel palazzetto dello sport in cui, in quegli anni, si teneva la manifestazione. Le scarpe infangate perché era piovuto e l’unica via d’accesso al festival prevedeva l’attraversamento di una vasta area sterrata. Dentro c’erano gli stand degli editori e dei venditori, le scalinate su cui sedersi tra un’incursione e l’altra, un po’ di gente che si muoveva scoordinata compulsando mancoliste. Non ricordo la presenza di cosplayer. L’unico operatore del fumetto che credo di aver incontrato è Jorge Vacca che, in quel momento, lavorava al Centro Fumetto Andrea Pazienza di Cremona: mi ha venduto il nono numero della prima serie di “Schizzo”, affascinandomi con il suo accento argentino e con una spiegazione chiarissima – che, oggi, non ricordo più – del senso della copertina della rivista, che riproduceva dei fogli accartocciati su cui erano disegnati eroi del fumetto.

All’uscita ritrovare l’auto era stato difficile, ma non impossibile: era nel parcheggio fangoso e avevo viaggiato con un paio di amici con una memoria migliore della mia. Da quel momento sono tornato a Lucca spesso. Tutti gli anni. Sempre in occasione della fiera dedicata al fumetto e, qualche volta, anche in altri momenti.

A un certo punto, nel 2006 credo, il festival è tornato tra le mura della città. Basta parcheggio fangoso. Basta panini così così dei baracchini nei dintorni. Nello stesso anno, ho organizzato, con Matteo Stefanelli, la prima di una serie di tavole rotonde, chiamate un po’ pomposamente “Lucca Comics Talks”. Un’idea semplice: dopo una giornata di visita alle mostre, acquisti compulsivi, fotografie ai cosplayer (che a quel punto c’erano, eccome), ci si poteva infilare in una sala ad ascoltare una chiacchierata tra autori e operatori intorno a un tema particolarmente sentito in quel momento. La cosa è andata avanti per qualche anno e mi dava diritto a essere qualificato come membro dello staff culturale del festival e a trarne alcuni vantaggi: vitto, alloggio, spese di trasferta e accesso ai bagni dell’area pro. Tutto molto bello ma, dannazione!, mai che mi abbiano dato una camera dentro le mura. E neanche in prossimità. Per riuscire a raggiungere il festival mi è sempre toccato prendere l’auto. Il problema non è mai stato dover percorrere quella decina di chilometri per giungere in città: i navigatori satellitari esistono da un bel po’ e, privo di senso dell’orientamento dalla nascita, ho imparato presto ad affidare loro la mia sopravvivenza. Il problema è sempre stato il parcheggio! Trovarne uno a Lucca, in quei giorni, è difficilissimo. Certo, c’è sempre un amico che te ne suggerisce uno, ma quello non l’ho mai trovato, neanche con il navigatore. La situazione diventa poi intollerabile al ritorno se, come me, non riesci a infilare l’uscita dalle mura giusta neanche se te la indicano col dito, perdi l’auto e, per ritrovarla, devi trascinarti dietro uno zaino, a mo’ di carapace, che all’inizio della giornata aveva dentro solo un quadernetto e una penna e ora si è trasformato in un monolito di carta.
Già. Perché la pessima abitudine di comprare fumetti non sono ancora riuscito a perderla.

Se eri un acquirente compulsivo di fumetti, quando andavi a Lucca, non ti appesantivi con albi e libri che potevi trovare con comodità nei negozi che frequentavi normalmente. Cercavi le cose strane e introvabili (che prima del diffondersi degli acquisti su internet erano più di quante siano ora): i piccoli editori dalla distribuzione improbabile, le tipografie raffinatissime che stampavano pubblicazioni inverosimili, le fanzine, e – soprattutto – le autoproduzioni. Certo, tutti questi oggetti strambi (non solo italiani) li si trovava in alcune librerie, come la Calusca di Primo Moroni, o durante alcuni festival nei centri sociali, a partire dall’Happening Internazionale Underground al Leoncavallo, ma vuoi mettere quanto è più divertente ammonticchiare nello stesso mazzo albi invisibili e robe mainstream.

A Lucca a un certo punto è comparsa la “self area”: una sorta di riserva indiana per ospitare le autoproduzioni, in uno spazio ben delimitato. L’obiettivo era chiaramente portare i piccoli, che non avrebbero acquistato un costoso stand all’interno dei padiglioni principali, nel ventre di una balena da cui Giona e Geppetto erano stati sloggiati per far spazio ai brand e al merchandising. È una riserva, certo, ma è bello esserci: ci trovi dentro sempre un sacco di persone interessanti e maturi degli affetti. Alcuni ti restano addosso per un sacco di tempo. E alcune di quelle minuscole etichette, benché invisibili, sono concrete realtà che meritano tutta la nostra attenzione. Alcune delle idee editoriali più interessanti messe in atto dal fumetto italiano negli ultimi venti anni si sono sviluppate proprio su quei banchetti. Ne scelgo tre, per ragioni di spazio e di affetto, ma ce ne sono altre.

Nel 2003 Luca Vanzella e Luca Genovese danno il via a Self Comics. L’idea è semplice: storie di otto pagine con copertina, distribuite in una giovane internet, dai confini più stretti di quelli attuali, in formato PDF. Il file può essere stampato, in A4 fronte retro, e trasformato in un librino spillato. Quegli albi vengono inoltre venduti a un prezzo contenutissimo dagli autori presenti in self area. Le regole sono semplici e molto punk: questo è un accordo; questo è un altro accordo; fa’ la tua canzone. Il formato è un vincolo inviolabile al cui interno un gruppo composito di giovani e promettenti autori fa la propria rivoluzione. In quegli albetti stupendi compaiono fumetti scritti e disegnati dai due Luca fondatori, e da Claudio Calia, Emanuele Rosso, Gianluca Maconi, Giulia Sagramola, Lorenzo Manià, Luana Vergari, Lucia Biagi, Luigi Critone, Mabel Morri, Manuel De Carli, Matteo Fenoglio, Paolo di Orazio, Paolo Parisi, Riccardo Guasco, Sara Pavan, Simon Panella, e chissà chi dimentico. Mentre il mercato del fumetto si polarizza verso il formato dominante del graphic novel, per un decennio Self Comics pubblica fumetti brevi, spesso bellissimi, che gridano al mondo quanto sia possibile estendere e articolare il racconto, senza dover per forza costruire un libro. Che liberazione.

Nel 2004, dopo una gestazione durata un paio di anni, escono i primi albetti dei cani. I cani fanno fumetti. Il gruppo iniziale è composto da nove autori provenienti da esperienze diversissime: Alessandro Fumi, Andrea Pasini, Andrea Rossi, Antonella Toffolo, Cinzia Zagato, Graziano Barbaro, Lorenzo Sartori, Salvo D’Agostino e Giorgio Mascitelli. Sono straordinariamente bravi e formano un collettivo per progettare fumetti per i quali non esiste uno spazio editoriale, strappando il tempo che dedicano a questa attività priva di profitto a lavori retribuiti in modo equo (c’è chi scrive “Diabolik”, chi disegna “Topolino”, chi fa un mestiere fuori dal fumetto, chi fa la grafica degli album di figurine, chi disegna per riviste di enigmistica, chi insegna, …). Gli albi dei cani hanno una grafica bellissima e propongono fumetti quasi tutti dello stesso formato (A4 fotocopiati, piegati in due e spillati) ma diversissimi tra loro per registro e stile. Quasi subito infilano una zampata narrativa sbalorditiva, Una lacrima sul viso di Mascitelli e Sartori. Sessanta paginette di straordinario fumetto che non ha mai conosciuto un’edizione fuori da quell’etichetta autoprodotta. Poi, dopo appena un lustro, il marchio si estingue e il branco di autori si allontana, in ordine sparso: ognuno torna alla sua quotidianità.

La gratuità dei prodotti e l’impossibilità di trarre un guadagno dal fumetto è purtroppo la grande caratteristica che accomuna Self Comics e cani (e una moltitudine di piccole etichette). Dedicarsi all’autoproduzione di fumetti, con questo approccio, costringe gli autori a essere dei dopolavoristi che usano la loro etichetta come valvola di sfogo creativo o, al limite, come canale promozionale. Ma, ormai lo abbiamo capito, essere pagati in visibilità non garantisce la cena.

Nel 2011 l’associazione culturale DOUbLe SHOt subisce il distacco di un gruppo di autori che decide di formare il collettivo Mammaiuto. L’idea è, ancora una volta, semplicissima: la costruzione di un sito internet in cui pubblicare fumetti, indifferenti alla linea guida delle case editrici che, nella maggior parte dei casi, vorrebbero costruire prodotti “vendibili” a un pubblico che immaginano abbia una forma specifica (che, tipicamente, ci piace poco). Il gruppo iniziale è composto da Alessio Ravazzani, Francesco Frongia, Francesco Rossi, Giorgio Trinchero, Paolo Deplano, Samuel Daveti, cui si unisce subito Lorenzo Palloni e, nei mesi successivi, Claudia “Nuke” Razzoli, Francesco Guarnaccia, La Came e Sara Menetti. Un anno dopo la partenza del sito, i fumetti pubblicati su quella piattaforma iniziano a diventare libri e questi oggetti vendibili sono interessanti da almeno due punti di vista. Innanzitutto, tutti i fumetti continuano a essere disponibili gratuitamente in rete. In secondo luogo, l’incasso prodotto dalla vendita (sempre diretta) va all’80% all’autore e al 20% all’associazione culturale. Non serve un foglio excel per capire che le 300/500 copie stampate da Mammaiuto – e vendute, perché la promozione sul sito funziona benissimo – producono per gli autori una retribuzione assai più cospicua di quanto farebbero le eventuali 2.000 copie distribuite da un editore che garantisce un anticipo su royalty del 7/8%.

Una delle storie del fumetto che dovremmo raccontarci analizza i modi nei quali gli autori si associano tra loro per costruire narrazioni tentando di garantirsi tanto la libertà creativa quanto la sicurezza economica. È una storia articolata, che tocca periodi e nazioni diverse, e che sarebbe interessantissimo studiare e analizzare. Se solo mi ricordassi dove ho parcheggiato quella dannata auto.

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