Saccheggiamo il campo delle “arti liberali espanse” – una macrocategoria ideale in cui considero tutto ciò che contribuisce attivamente alla formazione di una poetica o di un’estetica che abbiano rilevanza all’interno della cultura di riferimento, che accoglie tutti i travasi dallo highbrow al lowbrow, indipendentemente dall’estrazione delle opere, dal loro carattere scolastico, o elitario, pop, alternativo, mainstream, “subculturale” e così via. Saccheggiamolo per rispondere a una domanda: che cos’hanno in comune Giacomo Leopardi, Federico Fellini e Andrea Pazienza?
Ok, hanno in comune moltissimo: tre geni nazionali, tre glorie della storia culturale italiana, tre intellettuali il cui lascito è immenso e potenzialmente infinito nel nostro patrimonio culturale (yaaaawn). In una parola, tre classici (e con questo abbiamo detto tutto). Ma, al di là dell’ovvio, c’è un’immagine precisa o, meglio, un dato immaginario cui tutti e tre hanno attinto, una figurazione che è fluita nei loro inchiostri/pellicole/pennarelli, un singolo pensiero che, anche se solo per una unità – un dialogo in una più ampia trattazione filosofica, un segmento in un film a episodi, una vignetta – ha ispirato tutti e tre. Una musa per cui tutti e tre hanno intonato il loro canto, o forse un dettaglio, una coincidenza, quasi, che li accomuna. Aggiungiamo un nome, Milo Manara, che forse potrà orientare un pochino la riflessione, e una sua opera del 1996, la Gulliveriana.
Eccone un altro: Dino Buzzati, anche se lui lo ha fatto in modo un po’ diverso dagli altri, raccontando di un supercomputer, anzi, una supercomputeressa, una donna-mostro-città-fortezza-montagna. Il Grande ritratto, il ritratto di una psiche (perché è quello che fa la donna, ci dice Buzzati nel 1960, e non la canonicità del suo corpo), creata da un cervellotico scienziato che ha poi una storia con lei (cinquant’anni prima di Her), figura-summa di tutte le sue ossessioni. E questo ci conduce ad ampliare la rassegna oltre l’orizzonte nostrano, con un altro classico, questa volta della stretta contemporaneità, Futurama, in particolare la sua (iconica) puntata incentrata sulla condanna, da parte della malvagia Femputer, alla «morte per snu snu» del protagonista Fry e di un drappello di altri compagni, sottoposti a estenuanti sessioni, appunto, di «snu snu», con le gigantesche autoctone del pianeta in cui sono capitati.
Non abbiamo paura di scomodare le istituzioni. Per esempio, lo abbiamo studiato tutti a scuola, il Dialogo tra un Islandese e la Natura di Leopardi: il protagonista, un everyman tra il genio romantico e la fascinazione classica – proprio come piaceva a Leopardi – un «povero islandese» dall’inclinazione eremitica che va «fuggendo la Natura», incontra nientemeno che questa, personificata in una donna di «forma smisurata», dal volto «bello e terribile», che dopo avere un po’ giocherellato con lui (dialetticamente, ben inteso), gli fa fare una brutta fine: lo fa scannare da due leoni o lo mummifica nella sabbia (il finale è doppio, come in un libro gioco). Diciamocelo pure, al di là del “pessimismo cosmico” – perché con simili etichette, che hanno fatto il loro tempo anche nella difficoltosa evoluzione della critica letteraria, la scuola italiana ci marcia (e ci marcisce) – è chiaro cosa sta succedendo: un alter ego di Leopardi incontra l’eterno femminino, incarnato in una gigantesca figura di donna, la Donna, la grande donna, l’unica donna, quella che lui per tutta la vita ha cercato di eludere. È lì che lo aspetta: ovviamente non gli lascia scampo e lo sovrasta, noncurante. Leopardi protofemminista che inscena una misteriosa superiorità femminile? No, no e no, nella maniera più assoluta, no. Ma certo Leopardi che interroga l’amore e il senso di una vita che lo rifugge – Natura quindi anche in senso di ciò che è naturale, la ricerca del rapporto con l’altro nel senso più ampio possibile, incluso quello erotico – e che per farlo usa una minacciosa figura di mastodontica dea incazzata e imprevedibile, perché in cuor suo sa di non avere mai veramente capito come funziona la questione.
A pensarci, è molto simile a quello che fa Fellini nel suo episodio di Boccaccio ’70 (1962), Le tentazioni del dottor Antonio: la Perdizione, la Lussuria in persona, nella forma di una gigantesca Anita Ekberg, che esce dal manifesto di una pubblicità del latte («bevete più latte, il latte fa bene») di cui è testimonial, per ossessionare il bigotto protagonista fino alla follia, con il suo inoppugnabile, colossale fascino, mettendo in crisi il bacchettone e con lui il volto ipocrita di certa Italia baciapile e terrorizzata dalle nuove pressioni socio-culturali. È ipotizzabile un’influenza diretta (forse spontanea, un ricordo di scuola che affiora) dalle Operette morali di Leopardi, nel clima che ha prodotto anche il Grande ritratto di Buzzati; e oltre a questi spunti ha giocato senz’altro un ruolo centrale il B-movie The Attack of the 50 ft. Woman di Nathan Juran (1958), verosimilmente parodiato da Fellini. Questo classico della fantascienza e l’episodio felliniano sono variamente omaggiati, per esempio da Blade Runner 2049 (2017) di Denis Villeneuve e dal videoclip di Doin’ Time di Lana Del Rey (2019), che si apre con un ritratto della cantante quasi nella medesima posa adagiata sul fianco della mastodontica Ekberg – una postura, come sappiamo, di genealogia antichissima, dai sarcofaghi etruschi alle veneri semidistese come la Venere dormiente di Giorgione e Tiziano, o la Venere di Urbino di Tiziano, o l’Olympia di Manet, o la Paolina Bonaparte di Canova.
Al di là dei riferimenti pittorici e scultorei che agiscono sottotraccia, in questa rassegna di donne enormi che, spesso a causa della loro immane desiderabilità, diabolicamente perseguitano malcapitati esponenti del sesso opposto, non va dimenticato il garbato, in fondo, inserto animato di Gibba nel film Scandalosa Gilda (1985): nel paese di Cazziglia (“nei pressi di Siviglia”), abitato esclusivamente da genitali maschili, arriva in treno (proprio come Bocca di Rosa alla stazione di Sant’Ilario) una vagina su due enormi gambe rivestite di collant a rete, per la gioia degli indigeni, minuscoli al suo cospetto.
Terminiamo la carrellata con Robert Crumb e una fantasia erotica di cui ha raccontato nell’ottimo documentario Sex in the Comics (Joëlle Oosterlinck, 2012): donne di grande statura che lo tengono seduto sulle loro gambe per farlo giocare a cavalluccio, o che lo fanno scorrazzare portandolo in groppa.
In questo percorso, senz’altro episodico e incompleto, nella rappresentazione della sottomissione dell’uomo a femmine enormi, idolatrate e temute, ritroviamo certamente la sublimazione romantica della femmina come mistero della natura nell’intelletto e nel sentimento, la percezione di una femminilità che, non potendo più restare costretta entro gli schemi sociali in vigore, non può che eccederli, fino a sovrastare mostruosamente le città. O anche l’ineluttabilità dell’amore che tanto più è soffocato, quanto più rischia di tradursi in una successiva gigantesca mutazione.
*Grazie a FumettiSbagliati per il confronto su alcuni degli spunti qui offerti.