Volonterosi carnefici

Lorenzo Ceccherini | Il bassista non se lo incula nessuno |

Alla compagine di QUASI piace, è evidente, non star tranquilli. Nell’afflato appassionato di raccontare l’infinita varietà dell’esperienza del bello e del buono di parole, immagini, suoni, storie, non manca mai di trovare terreno di coltura un tipo di bisogno, alimentato più da un Welthschmertz molto pratico, radicato nel dolore, personale e collettivo, della cognizione della società umana come ambito di disequilibrio, di ingiustizia, di iniquità. Quel bisogno si traduce in una trazione ineludibile verso le linee di faglia, i punti di rottura, l’esposizione della nudità di sovrani da burletta, la sottolineatura provocatoria, bellicosa, se necessario, della costante ricaduta delle persone, dei gruppi, in narrative sconnesse, surrettizie, disoneste. Prima di procedere oltre: potremmo (potreste) anche definirla una inclinazione a rompere il cazzo, a fare della sterile tetrapiloctomia [cit.], annegando in un compiaciuto citazionismo. Fate un po’ come preferite, non ne faremo una questione da customer care però. Personalmente, ci vedo più come modesti epigoni del role model enunciato dal poeta Baal in I Versi Satanici. La sua missione consiste, essenzialmente, in:

[…] to name the unnamable, to point at frauds, to take sides, start arguments, shape the world and stop it from going asleep.

Un aspetto interessante, indice potenziale della nostra irrisolvibile (ma ci piace così) convoluzione in un sistema di riferimenti ben annodati sotto la superficie degli argomenti, è che Baal è anche il protagonista dell’omonima pièce di Bertolt Brecht, e Brecht è l’autore dello spunto tematico di questa settimana di Quasi. Brecht, la Germania di Weimar, le rappresentazioni visive di Georg Grosz e Otto Dix, la cultura dell’Espressionismo, del Bauhaus, di tutta la fucina creativa e sociale di un’epoca di fervore culturale e sconfitta geopolitica, in attesa del disastro incombente, dell’estensione del dominio dell’industrializzazione della morte associata alla costruzione del «consenso» plebiscitario, alla sostituzione della successione agnatica da legge salica con quella della dimensione dell’adunata dei seguaci (‘sti follower sono un po’ la valuta del potere dell’epoca contemporanea). Nel giro di pochi anni la vitalità della scena si sarebbe ribaltata in una inversione grottesca, in roghi di libri e esposizioni di «arte degenerata».

Canzoncina sporca di Baal, ci pensa David Robert Jones

E ora si dirà: ma non si parlava del dubbio essenziale rapinare/fondare una banca?

Non abbiate fretta, i pezzi del bassista snobbato da tutti girano per milleottocento-duemila parole, abbiamo ancora un po’ di tempo e spazio.

Il fatto è che, sempre con la solita cialtroneria da dopolavorista, non riesco a non vedere un filo che unisce certe cardinalità che lo spunto della Germania di Weimar aiuta molto bene a mettere a fuoco. Il rapporto tra creatività e sofferenza personale e collettiva. La constatazione della crassa, oltraggiosa disuguaglianza tra strati di sfruttatori, approfittatori e vittime in senso esteso. Il collasso puntuale dei sistemi finanziari, fatti per funzionare silenziosi e astrusi nei tempi di quiete e sbriciolarsi nelle circostanze impreviste. La fallibilità eclatante della convalida delle strutture di potere tramite il consenso. La tecnologizzazione contemporanea che esacerba i profili di prestazione degli strumenti e delle dotazioni tecniche in uso nei processi creativi. L’economia del tempo, oltre quella dei soldi. Il valore del lavoro, in ultima analisi il valore della vita e dell’individuo.

Lo schema di pagamento di danni di guerra imposto alla Germania, insieme alle logiche con cui il Reich guglielmino aveva finanziato il sostenimento del conflitto e alla sospensione del gold standard (la convertibilità della valuta corrente in oro), arrivarono a generare un processo inflattivo che, tra il 1921 e il 1923, portò il marco tedesco cartaceo da un cambio di circa 4,2 marchi per un dollaro a 4,210,500,000,000 marchi per un dollaro. Giravano le banconote da 50 trilioni, per dire. Che quando il sistema valutario venne stabilizzato in qualche modo non furono rose e fiori per tutti è intuibile anche a noi illetterati di economia.

Passata l’iperinflazione il vecchio Papiermark si dimostrò ottimo come carta da parati
Bundesarchiv, Bild 102-00104 / Pahl, Georg

Sulla generazione e articolazione degli snodi sociali, politici, psicologici (sarò rimasto qualche decennio indietro ma ho sempre apprezzato due libri molto diversi come Psicologia di Massa del Fascismo di Reich e Fuga dalla Libertà di Fromm) che spiegano l’ascesa del nazionalsocialismo non mi cimenterei in ricostruzioni da ovetto di cioccolata. Quello che mi viene da prendere in prestito, da una vicenda storica di sprofondo nel baratro, sono alcuni spunti in ordine un po’ sparso ma non del tutto casuale: il timore della delle middle class di essere erose nella loro posizione (in termini economici, di identità culturale, di purezza della razza o virtù delle femmine, ecc.), la nozione di arte degenerata, il terrore per l’esercizio della libertà personale, la propria, l’altrui.

Whoosh! Salto in avanti di circa un secolo ed eccoci a oggi, al ’21 ma del secolo dopo. Fenomeni di concentrazione della ricchezza che riecheggiano i Roaring Twenties del Novecento sono in pieno svolgimento, però le economie stagnano (quella italiana almeno, da oltre vent’anni) e nelle banche occidentali ci sono sempre meno soldi legati al risparmio sul reddito da lavoro (il patrimonio vince sempre di più), le banche stesse non sono troppo contente di avere a che fare con certe categorie di lavoratori considerati rischiosi, il credito è diventato un miraggio o, in un periodo di tassi di interesse reali negativi (sì, è possibile), una fregatura per il consumatore visto che la banca applica uno spread più alto che in passato… Gli anni da inizio millennio in poi hanno segnato almeno due shock finanziari principali: la dot-com bubble del 2000-2001 e la crisi dei mutui subprime come innesco della crisi globale del 2006-2008. Poi è arrivata la pandemia i cui effetti recessivi si mostreranno per lustri a venire.

Ma anche prima del virus un po’ di cose storte si facevano notare.

Il mio primo basso era un (Fender) Squier Precision scala media. A differenza di molti strumenti marcati Squier (il marchio entry level di Fender) odierni quello faceva veramente schifo, tanto che oggi mi viene il sospetto che fosse un falso. Nel giro di circa un anno, appurato che non si trattava di un innamoramento passeggero, venni dotato di uno strumento incomparabilmente migliore – quello che uso ancora oggi e mi basta e avanza. A lezione, alla scuola di musica, si vedeva passare gente con strumenti di ogni livello, anche costosi, talvolta costosissimi, come nel caso di un tizio che non ricordo, al contrario del suo basso: un Tobias che faceva impressione anche solo per i legni utilizzati e la qualità di costruzione. Il proprietario mi spiegò che aveva potuto comprarselo grazie agli introiti dell’attività del gruppo di cui faceva parte: un’orchestra di liscio che girava le balere del Nord. Nel frattempo, sul fronte di altri generi, una serata pagata era una sorta di miraggio ed era già ben oliato il meccanismo del «quanta gente mi porti?» e del «cachet» pizza + birra. I pochi locali di rilievo con musica dal vivo avevano giusto serate con band residenti che facevano sempre lo stesso identico repertorio (My Sharona, Born to Be Alive, le solite cose trinciapalle, sempre sempre uguali) dietro a «vocalist» che, talvolta, sarebbero diventati conduttori televisivi di rete pubblica e evidenti tossicodipendenti da centro abbronzatura. In quel caso credo ci fosse una bassista, ricordo bene, però, il suo Pedullà blu-azzurro traslucido. Altro strumento da non pochi milioni di lire di valore e del tutto consono a un utilizzo professionale.

Anche oggi, i professionisti che conosco, nel settore della musica che definirei non-la-classica, combattono guerre perenni con la struttura di costo delle rispettive attività. Il paradigma di quella che un tempo era definita autoproduzione è diventato la norma, vuoi perché la soglia di accesso si è abbassata, non devi finanziarti un Abbey Road Studio per registrare qualcosa (ci sono esempi di album realizzati in modalità «cameretta» – l’hanno fatto, per esempio, Bon Iver, Billy Eilish, Jack Frusciante) ma è anche vero che, proprio per questo, è diventato praticamente obbligatorio disporre dell’armamentario da home recording. Sia chiaro, non è neppure troppa roba: un laptop, una interfaccia audio, un microfono a condensazione, una applicazione DAW (Digital Audio Workstation), qualche plugin. Certo, se uno punta a oggetti di qualità il conto sale ma gli aspetti rilevanti sono quelli del tempo, il tempo che ci vuole a imparare a usarli, a configurarli, e quello della gestione ed espressione dello sforzo creativo: se la mia «catena» creativa si nutre di azioni e interazioni su cinque, dieci, quindici oggetti collegati a livello hardware/software, come diamine si esplica la mia sensibilità, il mio controllo, dall’intenzione al risultato? E ho toccato un solo argomento, quello della produzione creativa. Poi, a decurtare le centosessantotto ore settimanali di vita di cui si dispone, c’è la componente didattica: insegnare a dilettanti disperati per far tornare i conti non fa benissimo al processo creativo, di solito. Insomma, le cose a cui tieni svuotano la banca, per riempirla devi farne di meno stimolanti. Va bene, a qualcuno piace pure insegnare, per fortuna, però era per rendere l’idea.

Tutto quanto sopra riguarda i professionisti, quelli che nelle centosessantotto ore, come occupazione e preoccupazione hanno la musica. E la banca, ovviamente. Solo pochi ce la fanno, spesso non sono neanche così professionisti, almeno non nel senso che di musica ne sanno veramente abbastanza – però arrivano da qualche parte, con quello che molti (me compreso) non esitano a considerare una forma di degenerazione (questo fa di noi dei nazisti in pectore?). Non è questo il punto quindi, che ne so, potete leggervi il blog di Musicademmerda, prima che passasse al formato Facebook, più meme-based. A questo punto, rispetto ai temi sollevati qualche paragrafo addietro, abbiamo preparato il terreno per chiudere l’esposizione delle tesi di questo pezzo, preparato di domenica e pubblicato di giovedì. Ci tengo a dirlo, nel caso le cose cambiassero radicalmente in quattro giorni.

Il dopolavorista, lo strumentista da salotto, vive in uno spazio diverso da quello del professionista, scevro da ogni pressione competitiva legata alla sopravvivenza lavorativa. Se ha un buon reddito spesso acquista strumenti di valore spropositato, vintage, contemporanei, di liuteria, basta che siano costosi. Amplificazione? Effettistica? Idem, e complessivamente non è difficile che stiamo parlando di parecchie migliaia di euro. Certo, deve avere anche tempo – si sente parlare di situazioni di questo tipo, il funzionario pubblico che si porta la chitarra in ufficio, non avendo effettivamente altro da fare, il rentier che ha costruito le sue buoni sorti sui due appartamenti in centro ereditati da nonna morta, ecco, questi profili qui sono ideali per creare condizioni congeniali per tirare fuori da un dilettante uno strumentista ragionevolmente capace. E con «ideali» intendo anche teoriche perché, assai spesso, questi soggetti fanno tutt’altro: bivaccano nel negozio di strumenti più blasonato della città affettando amicizia con i commessi e/o il proprietario, discettando incessantemente di minuzie tecniche senza senso, indistinguibili, mentre suonano nella stessa cover band da tempo immemorabile, con lo stesso repertorio, inscalfibile. Quando va bene fanno serate nel tal pub o nel tal altro, altrimenti solo sala prove, ma con piglio autocratico. Ecco, questa arte ha subito una certa degenerazione nella misura in cui si è confusa con un piano di consumo, di status, anche. Il tentativo innaturale di rendere la musica meno accessibile, più esclusiva, questa passione occidentale di legare la riuscita ai prodotti, ai mezzi di produzione e non all’esperienza del risultato. Le musiche più vicine alle origini sono forse quelle legate alla ritmicità percussiva più pura, dove lo strumento non ha poi tutto questo rilievo – non voglio dire che andavano bene un po’ tutti i legnetti e qualsiasi pelle di capra conciata a casaccio ma… avete capito insomma. Uno dei risultati di questa nevrotizzazione è il fatto che si finisce per soffrire regolarmente di un senso di inadeguatezza che sposta l’attenzione dal livello di competenza tecnica (la dannazione sisifea più tipica dei professionisti) a quello della dotazione materiale (l’accaparramento bruto, la ricerca della scorciatoia, del correttivo, tipica dei dilettanti).

Ammucchiare roba e sostituirla in cicli vagamente isterici è roba decisamente middle class – c’è ansia nel non possedere versioni state-of-the-art e la paura che arrivi uno più bravo è esorcizzata costruendo un muro di strumenti più costosi. Qualcuno ci casca, intimoriscono questi setup scintillanti, magari con rack pieni di lucine o pedaliere affollatissime. Però è un muro di carta forno, it breaks the bank e non tiene una mazza.

La degenerazione prende varie forme, come si è intuito – quella che più interessa qui somiglia in qualche misura a una perversione, la sostituzione della funzione degli strumenti, da mezzi a feticci. Fino a che il suonare diventa minimale nello spettro di attività della persona. Scalando diversamente le priorità finiscono per chiudersi anche certi canali: troppo si vuole essere ascoltati che si smette di ascoltare. L’assolo viene bene però poi non si sa accompagnare.

L’esercizio della libertà va a farsi benedire puntualmente nel mondo del musicante da salotto, non ci vuole molto. Il problema pare essere: come devo fare? Seguito da: non voglio sbagliare ma che palle! La cosa più scoraggiante è che libertà viene intesa spesso come un faiunpo’comecazzotepare e marchiata come interpretazione. Hai voglia poi a rosicare quando senti i maestri che improvvisano a meraviglia, magari con strumenti che non sono neppure i loro, sugli amplificatori della saletta della scuola, senza catene di effetti.

La domanda di Brecht sulle banche mi fa riflettere su quanto siamo veramente pronti a riconoscere che nell’apparente inconciliabilità di due attività (rapinare/fondare) alligni effettivamente un tipo di violenza del tutto simile – in questo caso quella della sottrazione forzosa, del furto. Problemi di asimmetria informativa, ci spiegano alcuni autori, consentono di rendere il secondo tipo di furto presentabile e socialmente convalidato. Inoltre, rivolgersi contro gli autori di quella violenza significherebbe anche farsi carico della responsabilità di indicare una via diversa – non mi sto riferendo a qualche vetrina di filiale di banca sfasciata durante una manifestazione, più al fatto che le istituzioni finanziare hanno continuato a mettere in atto iniziative spregiudicate, predatorie, con i rispettivi management, sempre la solita banda di bianchi, di tanto intanto un po’ piagnucolanti davanti a una commissione parlamentare, sempre protetti da buonuscite milionarie anche in caso di fallimenti devastanti. Abbiamo ricreato una sorta di Ancien Régime, non c’è niente da fare, solo più perverso, più incistato nel tessuto sociale complessivo della società apparentemente aperta. Nel frattempo, per fare un esempi, la gente, americana ma non più solo americana, si indinnia [sic] perché una società segreta di democratici e progressisti americani, con a capo la Clinton, sequestrerebbe bambini nel seminterrato di una pizzeria a Washington D.C. per inchiappettarli, chissà se dopo una pizza pepperoni e un frappuccino o se si presentano già mangiati. E funziona ‘sta roba, basta vedere la massa di coglioni assetati di sangue a spasso per Capitol Hill il 6 gennaio. Geniale è l’agente immobiliare texana che ha affittato un jet privato per unirsi al riot e ora vorrebbe un presidential pardon.

Per confermare spudoratamente che la Legge di Godwin è sempre valida, torno a parlare di nazisti per fare paragoni. Daniel Jonah Goldhagen ha intitolato un suo celebre saggio I Volonterosi Carnefici di Hitler, per sfatare, una buona volta, la narrativa delle SS «cattive», unici autori delle torture contro i reclusi dei campi di sterminio, in opposizione ai reparti regolari estranei a quelle vicende. Come potete immaginare, è stato dimostrato che pure la milizia territoriale e corpi che potrebbero paragonarsi a una odierna polizia municipale, la gente comune quindi, non i reparti scelti dell’eliminazione fisica, concorsero in modo diretto a organizzare le cosiddette «marce della morte», nei mesi dell’inverno e della primavera del 1945, quando decine e decine di migliaia di internati furono costretti a marciare, senza criterio, lontano dai campi di prigionia situati nei territori che l’Armata Rossa e gli Alleati stavano via via occupando.

Oggi non è così evidente dove cadano i morti, ma non c’è dubbio che la volontà di sostenere, proteggere, aiutare, addirittura, i carnefici, anche i propri, continui ad andare decisamente di moda.

Domani è il Blue Monday, dai.

Con strumenti dei tempi della Grande Depressione!
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(Quasi)