Quella che state per leggere è la versione riscritta e a puntate, come una specie di romanzo d’appendice, di un librino di elettroni pubblicato nel dicembre del 2013 col titolo Più per meno diviso nella collana “altramatematica” di 40k, curata da Maurizio Codogno e che ora non esiste più. È la somma di quattro brevi racconti sulla genesi dei segni delle operazioni fondamentali, una storia strettamente intrecciata (entangled, si potrebbe dire, visto il tema di questo numero di QUASI) con quella del calcolo, a partire dalla riscoperta dell’algebra in Europa fino all’ideazione del calcolo infinitesimale, e quella della scrittura, dalla stampa a caratteri mobili alla pubblicazione delle prime riviste di scienza. Tutto questo ha contribuito a dar forma ai segni matematici così come li conosciamo adesso ma non son stati sempre così e non ci sono sempre stati.
Se pensate di essere in grado di sopportare le ineliminabili, a volte ingiustificabili, imprecisioni della divulgazione pop, questo breve racconto potrebbe fare al caso vostro.
Se date un’occhiata alle carte degli umani potrete scoprire come, in alcuni momenti della loro storia, il disprezzo di certi uomini di lettere verso quelli dei numeri sia stato particolarmente profondo. Li dipingevano come meri alfieri della tecnica, i poveri matematici, e in quanto tali li biasimavano, affermavano, questi uomini, che la matematica, al contrario della teologia o della filosofia, è confutabile e non porta a nuova conoscenza, serve solo a contrassegnare le cose e non a intenderle. Benedetto Croce, per esempio, riusciva a sostenere cose del genere senza avere la minima idea di che matematica lo circondasse, un’ignoranza forse giustificabile solo se fosse vissuto in epoca rinascimentale, quando il principale, forse l’unico, obiettivo dei “sapienti” era quello di recuperare la cultura perduta degli antichi senza provare contestazioni o, peggio, curare l’ambizione di un nuovo sapere. Si praticava la filosofia naturale, certo, quella era concessa, ma non doveva urtare i precetti del “grande dittatore della Filosofia” (Aristotele, chi altri?) ed essere priva di informazioni quantitative, non ci si poteva mica sporcare le mani coi numeri, per carità! Per chi non faceva parte del ristretto circolo degli iniziati, la matematica era insomma roba fin troppo semplice, per mercanti, così dicevano. Per algebristas y sangradores, avrebbero potuto persino pensare, vista la parentela onomastica tra chi rimetteva a posto le ossa e chi i numeri.
Sarà stata pure una disciplina semplice, di sicuro era utile, anche alle finanze dei matematici che la insegnavano nelle scuole per apprendisti mercanti e la riassumevano nei trattati d’abaco, diffusi soprattutto in Toscana e nel Trevigiano tra il XIII e il XV secolo. Non è sorprendente dunque che quello che è considerato il primo libro di matematica mai stampato al mondo, Larte de labbacho, il manuale di un anonimo maestro dedicato «a ciascheduno che vuole usare larte de la merchadantia chiamata vulgarmente larte de labbacho», vide la luce a Treviso nel «decembrio del 1478». Visto che per fare buoni affari bisognava saper far rapidamente di conto e poca confusione, ne Larte de labbacho ogni operazione veniva caratterizzata da un «suo speciale articulo»: la somma (iongere) da et; la sottrazione (levare, cavare) da de (che vuol dire «via da», un venir meno insomma, tipo il ragionare nei de-menti); la divisione (partire) da in (a indicare la parte entro il tutto) e infine la moltiplicazione (moltiplicare, questa è facile) da fia. Di simboli, per queste operazioni, nessun segno: nessuna opera del tempo li conteneva ancora.
La più antica algebra rinascimentale, il Triparty en la science des nombres, vide la luce qualche anno dopo, nel 1484, a opera del parigino Nicolas Chuquet, “bachelier en medecine” e “maestro di algorismi”, che ne aveva approfittato per ri-traghettare sulla sponda europea le notazioni matematiche indo-arabe già svelate due secoli prima nel Liber abbaci del Fibonacci. La prima delle tre parti di questa gloriosa e profana trinità matematica, il Traicte des nombres entiers, era ancora matematica pratica, priva di dimostrazioni e anche di problemi di natura ricreativa o commerciale ma ricca di nuovi termini e notazioni. Uno dei piaceri del periodo era l’uso sfrenato della sincope, il taglio delle parole e non la perdita di coscienza, e Chuquet lo sfruttò per utilizzare le lettere p e m (ma, rispettivamente, ma con una barretta, il macron, sulla capoccia) al posto di plus (parola che venne coniata proprio in quegli anni)e moins.
All’ultima delle tre parti, la più importante, l’algebra vera e propria, Chuquet diede l’insolito nome di «Règle des premiers». Chuquet chiamava l’incognita “numero primo” e dunque la regola dei primi era, di fatto, la regola dell’incognita. Incognite sarebbero però rimaste la regola e l’opera, per ben quattrocento anni, plagiate solo da Etienne de la Rochenel nel 1520 con la sua Arismethique nouvellement composée, l’Aritmetica di nuova composizione. Che sfacciataggine.