Unisci le mani, intreccia le dita ma mantieni i palmi staccati. Ora, inserisci il dito medio della mano prevalente nel mezzo. Verifica di riuscire a muoverlo. Se non ci riesci c’è qualcosa che non va, ma tu, per favore, fa finta di riuscirci (ché il gioco non lo devi fare sul serio: è solo un espediente per rompere il ghiaccio e iniziare la settimana con un sorriso). Ecco. Ora congiungi i palmi, avvicinati a qualcuno e chiedigli: «L’uccellino è vivo o morto?»
Ti ricordi questo gioco? Lo si faceva da piccolissimi. Poi, crescendo, diventava un doppio senso che faceva molto ridere i più scemi. Già… mica tutta l’imbecillità che muove i passi sulla superficie del pianeta è sopraggiunta, inattesa, già adulta.
Pare che quel gioco da infanti prenda le mosse da una favola di Esopo. Un uomo si reca al tempio di Apollo per dimostrare quanto l’oracolo di Delfi sia inattendibile. Non si capisce bene se Il malfattore del titolo con cui è conosciuta la favola sia l’uomo o l’oracolo. In ogni caso, l’uomo cattura un passerotto e lo nasconde sotto il mantello; poi, va dall’oracolo e gli pone il quesito, deciso a liberare l’uccello qualora la divinazione dica che il pennuto è vivo e di schiacciarlo tra le dita in caso contrario. L’oracolo, che è un serio professionista e ha a che fare con furbetti d’ogni sorta da tutta la vita, lo sgama: «Ma smettila! Che quello che hai in mano sia vivo o morto, dipende solo da te!»
La morale della favola è chiara: ci insegna che, se non riusciamo a prendere per il culo l’oracolo di Delfi, dovremo assumerci le nostre responsabilità.
Assumersi le proprie responsabilità è complicato. Per questo, fin da bambini, cerchiamo di mettere in atto strategie di presa per il culo di chiunque, «L’uccellino è vivo o morto?», nella speranza di imbatterci in un nuovo oracolo di Delfi, possibilmente in gita, e fregarlo una volta per tutte.
Succede a volte che, diventati più grandi e ormai consapevoli del peso delle nostre responsabilità (e della nostra incapacità di prendere per il culo chicchessia), la scienza ci giunga in aiuto. DI solito lo fa raccontandoci le conseguenze paradossali di fondamenti teorici sensatissimi. Quei fondamenti non li capiamo quasi mai; la bellezza narrativa dei paradossi, invece, ci rimane addosso e ci consola quando le responsabilità si fanno pesanti e oppressive.
Il fisico Austriaco Erwin Schrödinger ha dedicato la vita allo studio e alla ricerca della meccanica quantistica, guadagnando perfino un Nobel nel 1933. L’unico che, nella redazione di QUASI, potrebbe dirti qualcosa di sensato su questo scienziato, senza cercare su Wikipedia, è Peppe Liberti; per tutti gli altri – anche per Arabella Urania Strange e Lorenzo Ceccherini, che vivono con un sacco di gatti e pare che sappiano sempre tutto – quell’uomo è il possessore di uno strano felino.
Pare che, per dimostrare che la fisica quantistica, quando applicata al mondo fisico macroscopico, produce risultati paradossali, Schrödinger si fosse inventato un esperimento mentale che metteva in pericolo un gatto. Nel 1935 scriveva:
«Si rinchiuda un gatto in una scatola d’acciaio insieme alla seguente macchina infernale (che occorre proteggere dalla possibilità d’essere afferrata direttamente dal gatto): in un contatore Geiger si trova una minuscola porzione di sostanza radioattiva, così poca che nel corso di un’ora forse uno dei suoi atomi si disintegrerà, ma anche, in modo parimenti probabile, nessuno; se l’evento si verifica il contatore lo segnala e aziona un relais di un martelletto che rompe una fiala con del cianuro. Dopo avere lasciato indisturbato questo intero sistema per un’ora, si direbbe che il gatto è ancora vivo se nel frattempo nessun atomo si fosse disintegrato, mentre la prima disintegrazione atomica lo avrebbe avvelenato. La funzione ψ dell’intero sistema porta ad affermare che in essa il gatto vivo e il gatto morto non sono degli stati puri, ma miscelati con uguale peso.»
Lo sappiamo. Anche tu come noi non ci hai capito niente ma ti ricordi benissimo la storia di questo gatto, chiuso in scatola, il cui stato di salute è impredicibile dall’esterno. E ti ricordi, vagamente, che c’era questa situazione per cui esiste una formula che ci dice quanto è probabile che il gatto goda ancora di ottima salute. La situazione diventava paradossale quando, facendo dei calcoli che forse metterebbero in difficoltà perfino Peppe, veniva fuori che il gatto poteva essere, in egual misura, vivo, morto e, udite udite, sia vivo sia morto e né vivo né morto.
Adesso tanto noi quanto l’oracolo di Delfi siamo molto confusi. Abbiamo chiesto a Peppe di spiegarcelo, ma lui ci ha detto che abbiamo bisogno di un po’ di preparazione e quindi, questa settimana, inizia a parlarci di addizione e sottrazione. Capiamo che sarà lunga.
Nel frattempo, incapaci di assumerci le nostre responsabilità, dedichiamo questa settimana di QUASI all’incompreso gatto di Schrödinger che, molto probabilmente, non era felice di appartenere a un umano tanto inaffidabile e pericoloso.
Buona domenica.