Non ho mai visto una rapina. Dal vivo, dico. Per mia fortuna, non ne sono (ancora) mai stato vittima. Siccome sono pavido, temo le conseguenze e non saprei neppure de dove cominciare, non ne sono mai stato protagonista e non ho mai svaligiato il caveau di una banca.
Una volta, in un mercato rionale a Messina, ho beccato uno che aveva infilato la mano nello zaino di mia sorella: avevo tredici anni e temo che il borseggio sventato non valga come esperienza di rapina.
Nelle narrazioni invece, di rapine, ne ho viste a migliaia. Raffinatissime o sgangherato, inventive e prive di spargimenti di sangue o dirette e cruente, pianificate con cura o improvvisate, riuscite o sventate, Parker o Dortmunder. I criminali finiscono spesso male. Non è un giudizio morale: è una constatazione basata su un campione statistico piuttosto esteso. E a punirli, nelle storie, ci possono essere poliziotti, eroi quasi per caso o supereroi. Questi ultimi si distinguono dalle altre due categorie per le superiori qualità fisiche e morali, per gli abiti strani e per la prosa ottocentesca.
Questo vestito linguistico è forse rimasto loro addosso per i natali umili e popolari. Mica se ne potevano liberare così facilmente, visto che i loro predecessori (Athos, Rocambole, Sherlock Holmes, Tarzan…) avevano definito le regole del gioco – e il codice del genere – tra il Diciannovesimo secolo e i primi decenni del Ventesimo.
Sul finire degli anni Trenta, la Grande Depressione è poco più di un ricordo e l’industria statunitense dell’intrattenimento deve trovare un modo per accaparrarsi le monete da dieci centesimi che i bambini hanno sempre più spesso in tasca. Il comic book pare una buona idea. All’inizio lo si infittisce con strisce già apparse sui quotidiani, ma quell’albo spillato arriva ad avere anche sessantaquattro pagine e, anche mettendone solo tre per pagina, si fa in fretta a esaurire le scorte accumulate in trenta o quarant’anni. Servono autori disposti a creare personaggi pensati apposta per il nuovo formato. Jerry Siegel e Joe Shuster, due venticinquenni appassionati di fantascienza, inventano questo tizio muscolosissimo che, manco fosse scappato dal circo Barnum, è vestito con tutina blu, mutande sui pantaloni e mantello rosso. Lo chiamano Superman e il gioco è fatto. Di lì a poco, arrivano un sacco di emuli e, per i supereroi, è Golden Age: Batman e Wonder Woman a completare la sacra trinità di National Publications che poi diventerà DC Comics, Captain Marvel per Fawcett, e Namor, la torcia umana e Captain America per Marvel che si chiamava ancora Timely. È un mondo semplice e questi personaggi conducono un’esistenza oscenamente ripetitiva e drammaticamente ingenua: narrazioni lineari e pochi colpi di genio che dimostrano che i supereroi, fin dalle origini, sono indistruttibili e resistono a tutto, anche alla noia.
Dopo un esordio così scoppiettante, gli Stati Uniti, carichi di superpoteri inespressi, vincono una guerra mondiale e iniziano a esportare il surplus di democrazia che lo stato produce indefesso. Il nemico, in quel momento e per i successivi quarant’anni, è rosso e la guerra in corso è fredda solo in apparenza. A Berlino i carrarmati si fronteggiano, in Corea si muore e il Vietnam è dietro l’angolo. National Comics, che tutti ormai chiamano DC, lancia Justice League of America e fa convergere sulle pagine del medesimo albo tutti gli dei dell’Olimpo che ha costruito nel tempo. La leggenda dice che Martin Goodman, il capo di Marvel, durante una partita a golf scopra quanto vende quell’albo. «Ehi, tu! Ne voglio uno uguale!», dice al giovane Stan Lee e quello mette in moto idee, ormoni e i disegni di un altro e inventa prima i Fantastici Quattro e poi tutto il Marvel Universe. In questo modo dà la stura al sessismo di cui i supereroi, nonostante siano cresciuti sotto lo sguardo attento e preoccupato di Wonder Woman, non si sono più liberati.
A quel punto la storia la sai. Gli eroi Marvel sono una carrellata di simboli fallici: c’è chi brandisce il martello e chi lo scudo, c’è chi indossa un’armatura pur di funzionare a dovere, e c’è chi, addirittura, diventa grosso e venoso. Quale sia l’idea di sessualità di Lee è ben chiaro fin da subito, da quando ci presenta l’allegra famigliola dei Fantastici Quattro. La gang bang periodica messa in scena sulle pagine del comic book coinvolge tre maschi che incarnano le pulsioni fallocrati di Lee – uno assume le dimensioni e la forma che preferisce, uno è tutto un fuoco, e uno è duro come la pietra – e una femmina che, al meglio delle sue possibilità, sparisce e diventa invisibile.
Ma di cosa stiamo parlando?
I supereroi fanno schifo per statuto. Sono una proiezione così marcata ed evidente dei desideri di maschi cresciuti tra le braccia di una società sessista da sottolineare la propria aberrante ideologia di riferimento in ogni pagina.
Il 1986 è l’anno fondante per la rivoluzione commerciale del formato del fumetto che chiamiamo “graphic novel”. Nel stesso periodo in cui esce il primo volume di Maus di Art Spiegelman, Alan Moore inventa Watchmen e Frank Miller riscrive Batman. Mentre qualcuno ci racconta i ricordi di un padre che, recluso in un lager, «sanguina storia», il fascismo e il sessismo dei supereroi diventano evidenti a tutti. Questo racconto diverte i lettori e si guadagna il nome di “revisionismo”: quel gesto rivelatore ottiene la stessa etichetta che, fino a quel momento, avevamo applicato alle più aberranti riscritture della storia. Quelle che, per esempio, negavano l’esistenza dei lager.
Il revisionismo permette a un drappello di autori riscritture radicali, ottenute scorrazzando in un vecchio parco giochi, la cui manutenzione ha lasciato molto a desiderare, pieno di attrazioni pericolati e fatiscenti.
Grant Morrison, Pat Mills, Kevin O’Neill, Rick Veitch, Paul Chadwick… I nomi sono tantissimi. Per un po’ il gioco funziona. Poi, anche lì subentra la noia e la ripetitività. Rivoluzione permanente è un ossimoro che produce reazionari di stato. Roba come The Boys di Garth Ennis e Darick Robertson o tutta la paccottiglia del Millarworld.
I supereroi inquinano. Nubi dense che partono dai fumetti e rilasciano le loro poveri sottili un po’ ovunque: nel cinema, nelle serie televisive, nei videogiochi, nelle storie in cui viviamo, nei nostri polmoni, nei nostri pensieri, nelle aule in cui le istituzioni più alte dei governi centrali dovrebbero gestire la cosa pubblica. I supereroi sono un male per il quale non esiste ancora una cura.
Alan Moore lo grida a chiunque da anni, ma ha trafficato con quelle storie così tanto da sembrare un ex tossico che denuncia i mali delle droghe dei cui effetti ha goduto tantissimo.
I fumatori e i divoratori di carni rosse conoscono bene i pericoli derivanti dai loro vizi, dai loro abusi.
Noi, consumatori di storie con i supereroi, non abbiamo ancora imparato a fidarci degli ammonimenti preoccupati fattici dai pochi che hanno maturato la consapevolezza di quanto quella roba ci stia facendo male, quanto ci stia uccidendo. Un giorno dopo l’altro.
Sono convinto che Andrea Mozzato la pensi come me. “Harsh Comics”, il suo progetto, più recente nasce da quell’amore contrastato che vorrebbe diventare odio. Tredici albi in formato comic book, pensati per uscire con periodicità mensile. Ogni albo contiene la storia di un supereroe giunto al limite e pronto a morire (spoiler: quel desiderio sarà soddisfatto). Mozzato, che si firma Officina Infernale, vive in preda a un’ossessione. Tutte le mattine, mentre sorseggia il caffè, scarica dalla rete immagini intollerabili: «persone tagliate a metà, close up di genitali, terroristi ceceni, palazzi in cemento di periferie anonime, gente che si buca, sangue su un letto, un primo piano di una mandibola…». Le accumula in un archivio gigantesco su cui è impossibile mantenere il controllo. Poi le tratta graficamente, le trasforma in copie uscite da una macchina che perde toner, le taglia e le cuce, le impagina… Ogni albo contiene l’avventura finale di un supereroe al capolinea. E il cut & paste delle immagini si sposa a quello narrativo. I personaggi, prelevati da universi narrativi consistenti, si mescolano, si confondono, combattono tra loro, mostrano la propria terrificante propensione a divorare la realtà… I supereroi di “Harsh Comics”, con il loro racconto in prima persona, i loro monologhi stucchevoli e ripetitivi, la loro prosa ottocentesca resa contemporanea da un uso disinvolto del turpiloquio, mostrano la loro vera natura. Sono metastasi che ammorbano il pensiero.
Ha ragione Mozzato. Il supereroe, dannazione!, è vivo e vegeto. Sta benissimo. Dentro e fuori dalle pagine del fumetto.
La società cui quell’immaginario ha dato forma, no.
Scrive e parla, da almeno un quarto di secolo e quasi mai a sproposito, di fumetto e illustrazione . Ha imparato a districarsi nella vita, a colpi di karate, crescendo al Lazzaretto di Senago. Nonostante non viva più al Lazzaretto ha mantenuto il pessimo carattere e frequenta ancora gente poco raccomandabile, tipo Boris, con il quale, dopo una serata di quelle che non ti ricordi come sono cominciate, ha deciso di prendersi cura di (Quasi).
Una risposta su “Il supereroe è vivo o morto?”
daphne
bella questa “DIDASCALIA”