Protagonista: Gwen Stacy, su “Amazing Spider-Man” n. 121.
Ha detto:
«Se solo Peter tornasse… Potremmo parlarne… E forse capire cos’è andato storto nella vita di Harry… Tanto da ridurlo così.»
Voleva dire:
«Peter, non ci sei mai quando servi. E ho come l’impressione che stavolta mi saresti d’aiuto sul serio…»
Gwen Stacy l’ho vista morire un sacco di volte. Intendo dire che “Amazing Spider-Man” 121 l’ho letto quando uscì su “L’Uomo Ragno” Corno (il titolo si discostava dall’originale, ma era molto efficace: “Qualcuno deve morire”), poi sul “Gigante” (la prima storica ristampa, sempre editoriale Corno), e su un paio di ristampe successive. Figurati se mi facevo mancare quella più recente, apparsa sul n. 200 dell’antologica “Super Eroi Classic”. Da un punto di vista soggettivo posso dire d’averla vista morire con gli occhi del bambino, del ragazzo, dell’adulto, e ora dell’uomo più vicino all’esser vecchio che maturo.
Ora, intendimi, già da bambino non mi sfuggiva che si trattava di un personaggio immaginario. Quindi, sì, uno dice “dispiace”, ma già allora capivo che il dolore – quello vero – è altra cosa. Figurati dopo, figurati ora.
Però una cosa è rimasta uguale. A otto anni come adesso, quando leggo “La notte in cui morì Gwen Stacy” una cosa che cerco è questa immagine: l’ultima in cui Gwen è viva:
Ok, un riassunto/chiarimento per chi non sa nulla di vicende ragnesche. In “Amazing” 121 Peter Parker fa ritorno dal Canada, dove si è scontrato con Hulk. Trova la fidanzata Gwen e l’amica Mary Jane (negli anni successivi sarebbe diventata sua moglie, ma non divaghiamo) accorse ad assistere l’amico Harry, preda di una terribile crisi psicofisica dovuta all’assunzione di droghe. Norman Osborn, padre di Harry, allontana duramente i tre ragazzi dal capezzale del figlio: vederlo in quelle condizioni è, per Norman, causa scatenante della sua psicosi latente, che lo riporta ad assumere i panni di Goblin, il più temibile nemico dell’Uomo Ragno e, soprattutto, l’unico che conosca la sua identità segreta. Norman rapisce Gwen e la porta sul ponte di Brooklyn. Qui, dopo un breve scontro con l’Uomo Ragno, fa precipitare la ragazza, svenuta, dalla sommità di uno dei piloni del ponte. Spider-Man riesce ad afferrarla con la propria ragnatela poco prima dell’impatto con l’acqua, ma la velocità rende fatale il tentativo di salvataggio. “Snap”, forse l’onomatopea più famosa della storia dei comics USA:
Se prendiamo per buona (meglio: per reale) la cronologia degli eventi di “Amazing” 121, quella che ho mostrato all’inizio è, dicevo, l’ultima immagine di Gwen viva e cosciente. Nelle tavole successive, infatti, vediamo come Peter scopre il rapimento: entra nell’appartamento che divide con Harry, trova la borsetta di Gwen, vede segni del passaggio di Goblin e di una colluttazione, intuisce quanto accaduto e si getta alla disperata ricerca della ragazza.
Gwen riappare poco dopo, ma da qui in poi si potrà solo intravederne il corpo, steso incosciente sulla sommità del pilone, fino al tragico volo. Durante lo scontro, Goblin è provocatorio e sprezzante verso Spider-Man, chiamandolo col vero nome e alludendo a “la tua donna”:
Bene, dopo il doveroso “spiegone”, torniamo alla prima immagine.
Ecco, puoi non crederci, ma fin da bambino era questa che mi colpiva e che, nel destino di Gwen, mi addolorava: Cosa succede fra quell’immagine e la successiva (dove è già svenuta)?
Tieni conto di una cosa: Goblin NON sta cercando Gwen. Lo dice lui stesso nella vignetta precedente:
(Lo so, negli anni successivi operazioni di ret-con hanno incasinato il vissuto di Gwen. C’è la saga Peccati del passato, con la scoperta di un rapporto sessuale precedente con Norman e persino l’esistenza di due gemelli nati da quel rapporto. Addirittura sappiamo che Mary Jane era al corrente di quanto successo e che Gwen avrebbe voluto parlarne con Peter, ma non ne ebbe il tempo. Oggi però sono un Marvel Nerd, parlo SOLO della continuity classica e di cosa significò, per me, quella morte)
Torniamo a noi. Osborn cerca Spider-Man per una sfida mortale. È solo il caso a fargli trovare Gwen al suo posto (come già detto, lei è andata a casa di Peter, lo sta aspettando). Per Norman, è la ciliegina sulla torta. Presumibilmente, gli fa cambiare il piano, trasformandolo in ciò che sappiamo: rapire la ragazza, portarla sul ponte, piegare psicologicamente Peter con la presenza di Gwen ecc ecc.
Bene. Ma, («oh, finalmente arriva al punto!», dici tu, e hai ragione…) cosa succede a Gwen nei pochi minuti in cui, dopo essere stata sorpresa nella casa di Harry e Peter, viene trasportata in volo verso il proprio destino? Viene tramortita subito? Oppure Osborn la sconvolge rivelandole la doppia identità del suo amato Peter? Quando viene abbandonata sul pilone del ponte di Brooklyn, prima del fatale volo, è completamente incosciente o solo sotto shock?
Insomma, in altre parole, scivola priva di sensi nella morte? Oppure (peggio…) muore dopo aver appreso una verità (per lei) sconvolgente?
Questo mi addolorava, già da ragazzino: pensare che lei fosse morta senza neanche capire il perché. In fondo senza neanche capire come aveva vissuto, chi fosse l’uomo che aveva amato. Tutto questo mi straziava proprio, giuro. Più della morte in sé.
Guarda ancora la sua ultima immagine. Te la zoomo, dai:
Gwen, per me, qui è bellissima. E te lo dice uno che, da adolescente, sentiva strani pruriti per le fossette di Mary Jane…
Però, ripeto, quell’immagine di Gwen mi è dolorosamente cara. Per una volta la biondina slavata non è piagnucolosamente ripiegata su se stessa, sui suoi scazzi con Peter, sulle sue menate da borghesuccia, neppure sul suo rispettabilissimo dolore per aver perso il padre (un ex capitano della polizia: altra storia ragnesca su cui NON mi soffermo, sennò faccio mattina…).
No. Gwen è preoccupata per Harry. E vorrebbe avere Peter accanto, per parlargli di quell’amico che sta male. È affacciata alla finestra, subito dopo si gira e porta la mano al capo, gli occhi bassi. Non è mai stata così sensuale (e noi già sappiamo, lo vediamo alle sue spalle, che non avrà tempo per esserlo in futuro). Se ti concentri ne puoi sentire il respiro, l’odore dei suoi capelli, mentre dietro arriva la morte e lei nemmeno se ne accorge…
Io, giuro, non è che il gatto di Schrödinger voglia tirarlo dentro per i capelli (oddio: per il pelo…) in questo discorso. A me del paradosso del fisico austriaco importa poco. È una cosa – a quanto ho capito – tesa a spiegare che il mondo reale, macroscopico, a noi vicino (quello dove un gatto non può essere contemporaneamente vivo e morto) è retto da regole ben diverse da quelle che governano il mondo atomico o subatomico. Dunque per interpretare o comprendere l’uno o l’altro mondo bisogna riferirsi ai loro specifici sistemi teorici, perché l’applicazione “invertita” può portare a risultati paradossali. E figuriamoci a che paradossi può portare l’applicazione di uno di questi sistemi logici al fumetto, o in generale al mondo della finzione narrativa.
Gwen è viva o morta? È un personaggio inventato, non è stata mai viva!!! Ma allora come può morire? Già questo basterebbe.
Ma assumiamo pure l’immaginario come un sistema di riferimento reale (realistico) in cui la ragazza è stata DAVVERO uccisa da Goblin, in fatti raccontati su “Amazing Spider-Man” 121.
Ha saputo la verità, prima di morire? Oppure muore senza capire perché, nella partita Peter/Spider-Man Vs. Osborn/Goblin, lei è una pedina tanto importante? Precipita incosciente, da quel ponte? Oppure capisce, anche solo un attimo prima, che è finita? Lo sa almeno che Peter ha fatto di tutto, per salvarla?
Che morire è un’abitudine antica, purtroppo comune a tutti. Ma morire per nulla, senza capire neanche come sei vissuta, è cosa terribile.
E pure il mio dolore bambino, quando la vidi precipitare la prima volta, non so se fu reale o immaginario. Neppure so perché si perpetua, si rinnova a ogni lettura, cambiando solo la frequenza e l’intensità con cui fa vibrare la mia anima, un tempo ingenua e oggi diversamente ingenua.
Tutto questo, caro Schrödinger, è “il mio gatto”. Nel paradosso quantistico, Gwen è viva e morta al tempo stesso (a ogni ristampa). Ha saputo la verità e allo stesso tempo ne è all’oscuro. È al tempo stesso consapevole e inconsapevole del proprio passato, mentre precipita. Ma nella realtà, seppure fittizia, non esistono queste biforcazioni. C’è una sola risposta e io non so quale sia.
Solo il mio dispiacere è al tempo stesso reale e irreale, sensato e insensato, sospeso, ingenuamente e crudelmente destinato a riproporsi e rinnovarsi. Solo il mio dispiacere è un paradosso quantistico, chiuso in una scatola, sconosciuto a tutti e persino a me stesso.
Vive una crisi di mezza età da quando era adolescente. Ora è giustificato. Ha letto un bel po’ di fumetti, meno di quanto sembra e meno di quanto vorrebbe. Ne ha pure scritti diversi, da Piazza Fontana a John Belushi passando per Carlo Giuliani (tutti per BeccoGiallo) e altri brevi, specie per il settimanale “La Lettura”. Dice sempre che scrive perché è l’unica cosa che sa fare decentemente. Gli altri pensano sia una battuta, ma lui è serio quando lo dice.